Il principio di funzionamento
col quale una centrale nucleare genera energia elettrica per i nostri
bisogni è del tutto simile a quello di qualsiasi altra centrale
termoelettrica, con la sola differenza che la fonte di calore è di
origine nucleare (ovvero basata sui fenomeni di fissione nucleare in
atomi di uranio e plutonio). Esse funzionano tutte sulla base di un
ciclo termodinamico, esemplificato dalla macchina a vapore, che è anche
responsabile, ad esempio, del funzionamento dei motori a combustione
interna delle nostre automobili. In poche parole una fonte di calore,
in questo caso di origine nucleare, trasforma dell'acqua in vapore ad
alta temperatura e pressione, il quale fa ingresso in una turbina e la
mette in rotazione: la stessa è collegata ad un alternatore (ossia una
macchina che trasforma la rotazione in energia elettrica, con lo stesso
principio della dinamo di una bicicletta) che immette l'energia
elettrica così prodotta in rete. Il vapore che fuoriesce dalla turbina
apressione temperatura minori (avendo appunto ceduto energia) viene
condensato e rimandato nella "caldaia" nucleare per ripetere il ciclo.
Risposta Lunga:
Data una sorgente di calore,
questa scalda un liquido (di solito acqua), che assuem dunque la
funzione di vettore di energia; l'energia accumulata dal liquido caldo
(che in alcuni modelli di reattori vaporizza parzialmente) va poi a far
muovere una turbina che è collegata ad un alternatore (assimilabile ad
una dinamo di una bicicletta, ma notevolmente più grande e complessa
ovviamente) che genera energia elettrica. Il liquido caldo (a volte
vapore), ora "scarico" di energia, viene quindi raffreddato (nel caso
in cui fosse sotto forma di vapore viene condensato) passando a
contatto con altro liquidi a temperatura più bassa (può trattarsi di un
fiume ad esempio - ma si badi, l'acqua in questo caso viene solo
scaldata, non certo consumata come qualcuno erroneamente ha suggerito)
e viene rimesso in circolo per ricominciare il ciclo termico: questo è
il principio di funzionamento di ogni macchina termica. L'unica
differenza fra la differenti centrali di tipo termico è nella sorgente
di calore della centrale che, nel caso nucleare, è data dall'energia di
fissione del combustibile nucleare (in genere uranio debolmente
arricchito). Rispetto alle centrali termoelettriche tradizionali (a
carbone o olio combustibile ad esempio) in cui il calore è fornito
bruciando del combustibile, la fissione dell'uranio fornisce un
quantitativo di energia molto superiore a parità di massa: bruciare un
combustibile chimico rompe legami atomici e molecolari, fissionare
atomi rompe legami nucleari milioni di volte più energetici,
liberandone dunque l'energia. Si possono poi ad esempio dividere le
centrali nucleari moderne in due principali tipologie: una è quella BWR
(Boiling Water Reactor), ovvero il reattore ad acqua bollente, che
assomiglia di più ad una centrale termica tradizionale; la seconda, il
PWR (Pressurized Water Reactor) - che sta per reattore ad acqua in
pressione, impiantisticamente un po' più complesso del precedente per
la presenza di un circuito addizionale di scambio termico. Nei reattori
BWR l'acqua nel circuito primario del reattore cambia di stato e passa
ad essere vapore acqueo, questo va a finire direttamente nella turbina
e dopo essere stato raffreddato e condensato viene reimmesso nel
nocciolo del reattore. Nei reattori tipo PWR l'acqua nel circuito
primario del reattore viene mantenuta ad elevata pressione (dell'ordine
delle 150 atmosfere), così che anche a temperature superiori ai 300°C
rimanga allo stato liquido; per arrivare alla turbina si deve passare
da uno scambiatore di calore (generatore di vapore) in cui l'acqua ad
alta temperatura ed in pressione scambia il calore con dell'altra acqua
che si trasforma in vapore e che quindi viene immessa in turbina.
L'acqua dal generatore di vapore ritorna al reattore dove si scalda
nuovamente e quella dalle turbine ritorna poi ai generatori di vapore
(dopo essere stata condensata in un condensatore, ovvero quel
dispositivo che scambia calore con una sorgente esterna, tipo un fiume,
al fine di condensare il vapore in uscita dalla turbina - innalzandone
la temperatura in maniera limitata, ma non certo consumandone l'acqua,
come si sente spesso erroneamente dire!), il ciclo quindi ricomincia.
Cos'è la dose?
Risposta breve:
La dose indica l'energia da
radiazioni ionizzanti (ovvero quelle capaci di produrre ioni, cioè
particelle cariche, nella materia) che un materiale assorbe e si misura
in Gray (simbolo: Gy), ovvero Joule (unità di misura dell'energia) per
chilogrammo (massa). Per tenere conto del fatto che radiazioni diverse
inducono diversi tipi di danno sugli esseri viventi si introduce un
"fattore di qualità", grazie al quale si ottiene il cosiddetto
"equivalente di dose", espresso in Sievert (simbolo: Sv), che
rappresenta dunque la grandezza fisica di interesse per gli effetti
biologici sugli esseri viventi.
Risposta Lunga:
La dose è la quantità di
radiazioni ionizzanti che vengono assorbite dal corpo umano (su cui
provoca effetti biologici) o su un materiale. Si può misurare con due
tipi di unità, il Gray (Gy) indica quanta energia (in Joule, J) è
assorbita da 1 kg di materiale, e si misura quindi in J/kg, quindi 1
Gy=1 J/kg. Il Sievert (Sv) è dimensionalmente uguale al Gray, ma viene
corretto con dei fattori moltiplicativi per indicare l'effetto
biologico dalle varie radiazioni. 1 Sv è la quantità di radiazioni che
equivale biologicamente (in prima approssimazione) ad 1 Gray di raggi
gamma (onde elettromagnetiche, simili ai raggi X) o a 0,05 Gray di
raggi alfa (nuclei di elio ad alta energia). La differenza risiede
nell'interazione della radiazione con la materia: tra gli effetti
biologici delle radiazioni vi è l'induzione di mutazioni nelle cellule,
aumentando il rischio dell'induzione di un tumore a distanza di
generazioni (quindi anni), rompendo i legami del DNA (ovvero del
"cervello" della cellula). I raggi gamma trapassano facilmente la
materia, quindi è più raro che inducano la rottura diretta o indiretta
della doppia elica del DNA, mentre le particelle alfa interagiscono
lungo una percorso molto più breve, come un treno che distrugge ciò che
incontra sui binari, e quindi rende tali doppie rotture molto più
probabili. D'altro canto le particelle alfa provenienti dall'esterno
del corpo, si fermeranno prevalentemente sull'epitelio (lo strato più
superficiale di pelle, composto da cellule morte), non inducendo quasi
nessun effetto. La stessa dose di particelle alfa della stessa energia
inalata o ingerita (quindi inglobata in punti sensibili dell'organismo)
ha invece un effetto decisamente più rilevante.
Da qui la stessa dose di raggi
gamma e raggi alfa determina due effetti biologici molto diversi,
dipendenti anche dall'energia della radiazione, dalle cellule coinvolte e
da altri parametri. Determinare gli effetti della radiazione sugli
organismi è un compito tutt'altro che semplice, ed un intera branca
scientifica,quella della radiobiologia, è dedita alla previsione ed allo studio di tali effetti.
L'unità di misura di un Gray o di un Sievert rappresentano dosi enormi:
poche persone al mondo hanno subito dosi nell'ordine del Sv, ovvero un
numero di persone dell'ordine di grandezza delle centinaia
prevalentemente composte da scienziati e tecnici nucleari coinvolti in
incidenti e alcuni pompieri intervenuti a Chernobyl. La dose ambientale è
di circa 2-3 millesimi di Sievert all'anno (la media mondiale viene assunta pari a 2,4
mSv/anno), cioè mediamente in un anno da ogni persona vengono assorbiti
2-3 millesimi di Sievert provenienti dalle più disparate fonti (vedi
domanda sulla dose ambientale).
Che vantaggi politici avrebbe l'Italia dall'adozione di energia nucleare?
Risposta breve:
L'Italia in virtù della sua conformazione
economica, avrebbe molti vantaggi. Ad esempio, ha necessità di diversificare il
suo mix energetico, soprattutto su fonti carbon-free se l'idea è quella
di rispettare gli impegni presi in questo senso. Il nucleare è una fonte
adatta al fine di essere utilizzata su vasta scala in modo
economicamente efficiente per coprire il fabbisogno di una struttura di
mercato moderna. In poche parole ci sarebbero vantaggi di tipo
microeconomico (il costo del KWh nucleare sarebbe fra i più bassi
possibili) e macroeconomico (miglioramento dell'equilibrio energetico
del Paese, riduzione dell'impatto ambientale e progressiva riduzione
della fattura energetica pagata all'estero, spostamento sul territorio
nazionale del baricentro della spesa energetica, rilancio dello spin-off
tecnologico tipico dei comparti ad alta tecnologia). Risposta Lunga:
Diversi sono i vantaggi economici, diretti ed indiretti, che l'adozione
di tale fonte potrebbe comportare per il nostro Paese. Dal contenimento
dei costi per la spesa energetica al rilancio dell'industria Hi-Tech e
della ricerca. L'aspetto forse più rilevante tuttavia e che l'Italia ha
bisogno di diversificare le sue fonti di approvvigionamento. Il
fabbisogno energetico della nostra nazione infatti è completamente
vincolato da importazioni estere: la dipendenza energetica era dell'87%
nel 2008 (sono messi peggio di noi in Europa solo alcuni piccoli stati)
ed è destinata ad aumentare ulteriormente con l'esaurirsi degli esigui
giacimenti di gas e petrolio nazionali. L'Italia ha poi bisogno di
aumentare notevolmente le sue fonti di elettroproduzione carbonfree,
nel caso voglia rispettare i propri impegni presi in merito alla
riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera con il
protocollo di Kyoto [1].
Se l'Italia avesse la popolazione norvegese e le sue risorse idriche,
il nucleare risulterebbe verosimilmente superfluo, ma così non è [2].
Essendo l'Italia il Paese industrializzato con la massima dipendenza
estera per l'approvvigionamento energetico, il nucleare è quindi utile
per dare una maggiore sicurezza di approvvigionamenti (ad esempio,
contro una nuova crisi energetica ucraina o contro risvolti negativi
come ad esempio il conflitto libico). Infatti, benché l'Italia non
possegga miniere di uranio attive e non si sappia quanto uranio sia
economicamente estraibile nel territorio nazionale, il suo acquisto è a
rischio geopolitico di approvvigionamento molto basso (soprattutto dopo
la creazione della prima banca mondiale dell'uranio [3]),
stoccare uranio per un lungo periodo di funzionamento di una centrale
nucleare richiede molto poco spazio (una piscina di una centrale
nucleare); essendo poi le centrali
moderne a burnup
(che è il parametro che indica la quantità di energia ricavabile per
tonnellata di combustibile) molto elevato (si parla di 60 mila
Megawatt-day per tonnellata, ovvero quasi un 1,5 milioni di kWh per
chilogrammo) e quindi cicli di funzionamento molto lunghi, questo
consente di avere stoccato il combustibile per molti anni di
funzionamento in un volume molto piccolo, al contrario della richiesta
di spazio per una centrale a gas o a carbone. La Cina sta ad esempio
acquistando notevoli quantità di uranio sul mercato per sopperire al
suo futuro grande fabbisogno uranifero e per una maggiore sicurezza
energetica. Nella pratica si mantiene combustibile solo per il ciclo
successivo, perché possono intercorrere altri requisiti per il reattore
(ciclo molto lungo con burnup non uniforme può richiedere che alcuni
elementi abbiano arricchimenti leggermente differenti da quanto
preventivamente ipotizzato), o nuove normative sul combustibile possono
richiedere nuove specifiche per i cicli successivi. Si tenga presente
il nostro Paese arriva a consumarne 82'640'000'000 (86 miliardi e 640
milioni!) di metri cubi gi gas naturale l'anno, ovvero più di Francia,
Svizzera, Portogallo, Danimarca, Romania e Finlandia messe assieme. Al contrario, è
impossibile stoccare combustibile per più di qualche giorno o settimana
per qualsiasi centrale a combustibili fossili di taglia medio-grande,
con rischi geopolitici di approvvigionamento energetico molto
maggiori quindi, soprattutto per l'Italia, che è estremamente sbilanciata verso
il consumo di metano da importazione, con cui produce sia riscaldamento
invernale che elettricità durante tutto l'anno.
Come può l'Italia ospitare in sicurezza centrali nucleari se è un paese sismico?
Risposta breve: Anche se l'Italia viene definito un Paese a rischio sismico, questo non
significa assolutamente che TUTTO il territorio nazionale comporti lo
stesso livello di rischio: ci sono aree non sismiche infatti, come ben
noto. Un impianto nucleare inoltre può venire realizzato anche in area
sismica, ma con criteri progettuali e costruttivi più stringenti naturalmente: questo comporterà
semplicemente una maggiorazione dei costi. Si tenga presente che nella
determinazione dei siti si incrociano le mappe sismiche con quelle che
tengono conto della distribuzione delle riserve idriche e con quelle che
tengono in conto della distribuzione della popolazione: i siti nel
nostro Paese di certo non mancano (e sono stati a suo tempo identificati).
Risposta Lunga:
L'Italia è un paese molto variegato, non è ascrivibile ad un solo
aggettivo, quindi dire che l'Italia è un paese sismico non è del tutto corretto: gran parte del territorio italiano è
sismico, ma altre vaste zone sono a ridottissimo rischio di eventi sismici
(praticamente tutta la Val Padana per dare l'esempio più evidente [Cf. Mappa Zone Sismiche]);
allo stesso modo l'Italia è un paese ad elevato rischio di dissesto
idrogeologico, ma esistono zone di grande estensione che sono desertiche
o semidesertiche o a scarse precipitazioni (come zone della Sardegna e
la Maremma). La definizione generalista non può quindi essere presa a
modello sia dei particolarismi geomorfologici, così come sociali
(ricordare le minoranze albanesi nel meridione, le ladine in Friuli e le
tedesche in Trentino). Allo stesso modo il Giappone è un paese sismico,
ma anche laggiù esistono zone senza o con scarsi rischi di terremoti,
sono in funzione oltre 50 reattori nucleari e molti altri sono in
costruzione o stanno per iniziarne i lavori: [Cf. Mappa globale Zone Sismiche]
si può vedere che l'Italia è contrassegnata con il colore arancio, il
Giappone invece ha vastissime zone colorate di rosso. Si può fare lo
stesso ragionamento per gli stati occidentali degli USA, dove sono in
funzione 7 reattori [Cf. Mappa centrali nucleari USA].
Si deve poi tenere presente che una qualsiasi costruzione di nuovi
reattori nucleari deve tenere conto di svariati parametri costruttivi,
come anche protezioni contro i terremoti (come ad esempio gli smorzatori sismici), che permettono di costruire con
sicurezza in molte più aree del paese. Si può prendere ad esempio il
caso del terremoto Chuetsu in Giappone (6,6 gradi sulla scala Richter -
quello dell'Aquila è stato di 5,8 gradi; da ricordare che la scala è
logaritmica in base 10: ogni grado è 10 volte più intenso di quello
precedente), questo ha colpito in modo molto significativo la più potente
centrale nucleare giapponese e del mondo, la centrale di
Kashiwazaki-Kariwa; questa centrale sorge a pochissimi km dall'epicentro
di quel terremoto. Durante il sisma alcuni reattori erano spenti per
controlli e ricarica del combustibile, altri invece erano in funzione e
sono stati spenti per controllare tutti gli apparati. Dal terremoto sono
ripartiti 4 dei 7 reattori, infatti la centrale ha subito notevoli
modifiche per migliorare le sicurezze in caso di sisma, ma non è
accaduto nessun incidente grave e la chiusura dell'impianto è stata solo
per i lunghi controlli e per gli aggiornamenti dei sistemi di
sicurezza. Per l'impianto di Fukushima Daiichi i problemi sono stati
causati dall'onda di tsunami, alta 14 m, che si è infranta contro
l'impianto e che ha compromesso i sistemi di sicurezza attivi (Cf.
domanda "Cosa indica la suddivisione in generazioni dei reattori?" per
maggiori informazioni). L'impianto di Fukushima Daini, a soli 10 km
dall'impianto gemello, non ha avuto problematiche di rilievo a seguito
dell'evento sismico. Quindi, l'Italia è un paese sismico, ma non è TUTTO
sismico, come sulle alpi è concentrata la produzione idroelettrica
italiana, allo stesso modo in ristrette zone del territorio italiano
potrebbero essere costruite in tutta sicurezza le centrali
nucleari nazionali, visto che ogni luogo ha le sue caratteristiche e differenti
possibilità di installazione per impianti energetici o industriali. Le
stesse centrali idroelettriche possono indurre incidenti catastrofici se
colpiti da sismi di discreta entità, ma sono costruite con accorgimenti
ed in zone specifiche al fine di ridurre tale rischio.
Se avessimo delle centrali funzionanti in Italia, le radiazioni
assorbite dagli abitanti della penisola superebbero le dosi attuali?
Risposta breve: Ogni centrale nucleare ed in generale ogni impianto che tratta
radioisotopi (anche gli ospedali) rilascia nell'ambiente radionuclidi.
Questi però sono rilasciati sempre in quantità regolamentate perché non
superino i valori massimi stabiliti per legge e ritenuti non nocivi
dalla comunità scientifica internazionale in base alle più recenti evidenza scientifiche. Le misure che sono state
eseguite dal governo tedesco riferiscono contributi inferiori allo 0,5%
rispetto alla dose naturale media, corrispondenti a circa 1 viaggio
intercontinentale di andata e ritorno. Risposta Lunga: Per un abitante europeo i contributi della dose naturale (vedi domanda
cos'è la dose) assommano in media a 2-3 mSv (milli-Sievert) annui, con oscillazioni
comprese fra 1,2 e 4,6 mSv per il 95% della popolazione, provenienti da
fonti naturali: generalmente inalazione di gas radon, ingestione di
radionuclidi dal cibo e contributo dei raggi cosmici e di altri
radionuclidi presenti nei materiali che ci circondano. Questo contributo
varia molto a seconda degli usi e costumi locali, ad esempio case in
legno e maggiormente ventilate trattengono meno radon al loro interno, e
dalla locazione geografica che può essere più o meno ricca di
radionuclidi naturali o più ad alta quota, dove i raggi cosmici sono
meno schermati dall'atmosfera. Le cure egli accertamenti medici sono un'altra fonte di
radiazioni ionizzanti a cui l'uomo moderno è sottoposto, che varia da
0,1 mSv di una piccola radiografia ai 20 mSv o oltre di un trattamento
radioterapeutico, e sono stimabili in media come 0,5 mSv annui per
abitante, così come altri contributi provenienti dal luogo di lavoro o
dalle abitudini personali (i già citati viaggi aerei ad esempio). Anche
il fallout radioattivo dei test nucleari passati e dell'incidente di
Chernobyl contribuisce alla dose annua, tuttavia decadendo sensibilmente
di anno in anno: nel 2020 costituiscono oramai una piccola frazione
della dose totale assorbita, ovvero circa a 0,01 mSv annui a persona. Lo
stesso studio riferisce, nei dintorni delle centrali, contributi dello
stesso ordine (0,01 mSv) provenienti dagli impianti, con picchi di 0,02
mSv annui in alcuni impianti, mentre esternamente ad altri impianti non
vi è alcun misurabile contributo alla radiazione di fondo naturale (1 mSv/anno). Addirittura, a rigore scientifico, parlando di
contributi alla dose annua assorbita da una persona le centrali nucleari
non dovrebbero neppure venire citate: se si costruisce un tavolo con
una precisione centimetrica non ha senso utilizzare strumenti che
misurano contributi nell'ordine di decimi di millimetro, allo stesso
modo considerando la dose totale assorbita annualmente da una persona,
che ha fluttuazioni nell'ordine del mSv, non ha senso contemplare
effetti centinaia di volte più flebili.
Cosa indica la suddivisione in generazioni dei reattori?
Risposta breve: E' una suddivisione non sostanziale dei vari reattori, utile per
dividerli in classi macroscopicamente diverse specialmente sotto gli
aspetti di efficienza, sicurezza e struttura. Questa suddivisione è
meramente concettuale e non effettiva, in quanto un reattore non è
fossilizzato allo stato iniziale di costruzione ma viene aggiornato nel
corso degli anni e due reattori della stessa generazione possono essere differenti. Risposta Lunga:
E' una suddivisione in base alle caratteristiche salienti dei vari
reattori al momento della sua costruzione. La "generazione" (abbreviata
"gen") indica una categorizzazione per quanto riguarda l'efficienza dei
reattori, i sistemi di sicurezza e la struttura della centrale.
Reattori di una stessa generazione sono similari sotto questi aspetti,
anche se due reattori della stessa generazione e tipologia possono
presentare differenze interne molto significative. Ad esempio, i primi
3 reattori italiani erano tutti prototipi della Gen I, ma
successivamente con varie modifiche ai sistemi di controllo, efficienza
energetica del combustibile e dei sistemi di sicurezza, non erano più
propriamente dei reattori di Gen I ma nemmeno considerabili reattori di
Gen II. Da ciò un esempio per dire che la suddivisione è solo
concettuale ma non effettiva, e nemmeno la tecnologia di un singolo
reattore è statica nel corso del tempo. Gli odierni reattori di IIa
generazione che sono in costruzione in Brasile ed Argentina, ad
esempio, sono notevolmente differenti rispetto a reattori di II
generazione degli anni '70 loro omologhi ma non possiedono le più
sofisticate misure di sicurezza tipiche delle centrali definite di Gen.
III. I reattori KONVOI tedeschi e gli N4 francesi che sono i "genitori"
degli EPR (European Pressurized Reactor), sono stati costruiti solo
pochi anni fa ma sono stati categorizzati come Gen II, mentre il frutto
di quei prodotti invece è di III+, molti dei sistemi sono similari
(essendone evoluzioni), altri sono nuovi o differenti, ed è il connubio
fra novità ed evoluzione che permette ai moderni reattori di essere
classificati III+. I reattori di Ia generazione sono i primi frutti
degli studi di Fermi sulle reazioni nucleari autosostenute per la
produzione di elettricità, prodotti nel dopoguerra (anni '50-'60) e,
dato il carattere sperimentale, con drastiche differenze fra un
impianto e l'altro. I reattori di tipo Magnox sono fra i più
conosciuti, sviluppati dagli inglesi utilizzano uranio non arricchito e
un ciclo termodinamico che sfrutta anidride carbonica sotto pressione.
I reattori di IIa generazione mettono a frutto l'esperienza di
progettazione maturata con le infinite variazioni apportate ai progetti
originali dei reattori di Ia generazione. La comunità sceglie
prevalentemente reattori che utilizzano acqua "leggera" (ovvero acqua
ordinaria) per il ciclo di raffreddamento (BWR e PWR), onde evitare
complicazioni e incrementare la sicurezza, anche se non mancano
tentativi in altre direzioni (CANDU, ad acqua pesante - costituita
dall'isotopo pesante dell'idrogeno, il deuterio, e presente nella
misura di una parte su 6000 nell'acqua ordinaria -, e AGR, ad anidride
carbonica). Sempre per ottimizzare il rendimento e minimizzare i rischi
viene utilizzato quasi sempre uranio arricchito. Sistemi di controllo
attivi (che intervengono in seguito ad attivazione) ausiliari,
automatici e ridondanti (cicli di raffreddamento, inserimento di veleni
neutronici, ecc...) migliorano la sicurezza anche se in circostanze
eccezionali potrebbero non riuscire a intervenire. Ad oggi la maggior
parte dei reattori funzionante sono di IIa generazione, e vengono
costruiti anche tutt'ora nei paesi in via di sviluppo come Cina e
Brasile. A volte vengono definiti reattori generazione II+ queste
tipologie di reattori costruiti odiernamente, e quindi che includono
sistemi di sicurezza e gestione più sofisticati.I reattori di IIIa
generazione sono caratterizzati dalla presenza di sistemi di controllo
passivi (scarsamente presenti in precedenza, e presenti ad esempio in
modo massiccio negli AP-1000, il nome infatti significa Advanced
Passive da 1000 MWe) come ad esempio il "core catcher" (una "vasca"
speciale in cui si va a raffreddare il nocciolo del reattore dopo una
sua eventuale fusione (corium), in modo da contenere anche il temuto
incidente di "meltdown"). Inoltre particolare attenzione si è posta su
misure anti-terrorismo rendendo gli ultimi modelli di terza generazione
(la cosiddetta generazione III+) resistenti anche ad attacchi aerei e
bombardamenti. Questo rende i progetti di III generazione molto
differenti rispetto ai precedenti sul piano della sicurezza, anche se
non vengono introdotte particolari rivoluzioni per quanto riguarda
l'elettrogenerazione se non generali modifiche volte al perfezionamento
del ciclo energetico e al miglioramento dell'efficienza e della durata
dell'impianto, diminuendo la quantità delle scorie prodotte. I primi
sono stati costruiti in Giappone nel '96 ed è la tipologia di impianti
che vengono attualmente presi in considerazione dalle potenze mondiali.
I reattori di IVa generazione invece sono ad uno stadio ancora
sperimentale ed attualmente puntano a rivoluzionare completamente il
sistema di elettrogenerazione proponendo nuovi tipi di cicli di
raffreddamento (ad esempio con sodio o piombo liquido) o carburanti
(come il torio) o concetti completamente nuovi (come la costruzione di
"mini" impianti da pochi MW installabili e riciclabili in blocco).
Questo tipo di macchine potrebbero essere disponibili entro un paio di
decenni, se ricevessero l'interesse politico che meriterebbero.
Quanto tempo ci vuole per costruire una centrale nucleare?
Risposta unica: Per costruire una centrale nucleare, dalla prima colata di cemento fino
alla prima connessione alla rete elettrica nazionale servono mediamente
dai 5 agli 8 anni, se si considerano anche le fasi di approvazione
tecnologica, dei siti, si arriva anche ai 10 anni o oltre, fra la prima
decisione di costruire un nuovo reattore e la produzione del primo
kWh nucleare. Ovviamente anche in questo caso si devono tenere conto di
forti variazioni dovute alla tecnologia costruttiva e all'impegno
istituzionale profuso per l'accelerazione dei tempi dipendente
dall'effettiva necessità della centrale. Ad esempio, i paesi dell'ex
blocco sovietico hanno ultimato delle centrali con tempi di costruzione
superiori ai 19 anni, a causa del crollo economico conseguente allo
sgretolamento politico dell'URSS. Invece paesi in via di sviluppo come
Corea del Sud, Cina ed India nel costruire loro ultime 25 centrali hanno
impiegato, in media, poco più di 5 anni. Si ricordi a titolo di esempio
che nel nostro Paese la centrale nucleare Enrico Fermi di Trino
Vercellese, di tipo PWR, fu realizzata in soli 3 anni, dal 1961 al 1964.
Quanti incidenti nucleari ci sono al mondo? L'energia nucleare è la fonte energetica che registra più vittime?
Risposta breve: Sono molto pochi gli incidenti nucleari al mondo classificati sulla
Scala INES superiori al livello 4. La fonte nucleare, nonostante la
grande risonanza mediatica, è nel mondo la fonte di energia che genera
meno vittime, considerando le fonti che producono una parte cospicua
della produzione elettrica mondiale: le prime sono il carbone ed il gas,
poi idroelettrico ed infine nucleare. Risposta Lunga:
Molto pochi, si deve poi dividere innanzitutto l'ambito in cui si
vogliono considerare poiché non è solo l'energia nucleare a provocare
incidenti. Uno dei più gravi incidenti della storia, quello brasiliano
di Goiania,
è accaduto perché era stata trovata in uno ospedale abbandonato, da dei locali
abitanti della città brasiliana, una fonte di cesio radioterapica, e
questa ha contaminato ed irradiato alcune centinaia di persone: trattasi dunque di un
incidente di ambito nucleare ma non nell'ambito dell'elettrogenerazione.
Si contano pochissimi incidenti nel vero senso della parola, cioè
eventi INES di livello 4 o superiore, ovvero che implicano rischi per la
salute delle persone. Molti di questi sono poi accaduti in siti
militari, come Sellafield (Regno Unito) o Mayak (URSS) - in centrali
civili i più gravi sono stati Chernobyl (69 morti accertati per cause
dirette; sindacabile e difficilmente stimabile il numero delle vittime
fra la popolazione civile secondo gli studi degli organismi ufficiali).
L'incidente di Three Mile Island invece non ha provocato vittime
accertate fra la popolazione civile, cosi come anche l'incidente di
Fukushima. La fonte nucleare è la fonte di elettroproduzione che causa
il minor numero di vittime al mondo, considerando tutte le fasi di
produzione, dall'estrazione alla fine del ciclo vitale. Il carbone è
invece in assoluto la fonte che genera più vittime dirette, solo in Cina
si contano a migliaia le vittime dirette di minatori nelle miniere a
causa di crolli o altro, mentre considerando le vittime degli impianti
di elettrogenerazione è il gas a mietere più vittime. In generale sono
comunque numerosi gli incidenti nel mondo causati dagli altri tipi di
centrali convenzionali, mentre la fonte nucleare, essendo monitorata in
modo rigorosissimo e severo, raramente causa vittime.
C'è rischio di proliferazione nucleare a partire da reattori nucleari per la generazione di energia elettrica?
Risposta breve: No, non c'è un serio rischio di proliferazione di ordigni
nucleari funzionanti tramite l'uso di reattori commerciali per la
produzione di energia elettrica. La composizione del plutonio uscente da
un reattore nucleare non è adatta per la produzione di ordigni nucleari
a scopo bellico. Invece il combustibile esausto e le scorie ad elevata
attività possono essere utilizzate per la produzione di "bombe sporche":
ordigni convenzionali con lo scopo unico di provocare contaminazione
radioattiva. Tuttavia tale eventualità, al momento, è ben più probabile
con rifiuti di origine ospedaliera date le stringenti norme di sicurezza
della filiera nucleare rispetto a quelle sanitarie. Risposta Lunga:
Il rischio di proliferazione nucleare tramite l'uso di reattori
commerciali per la produzione di energia elettrica si può considerare
sostanzialmente trascurabile. Si fa infatti spesso (malevolmente)
confusione fra gli isotopi di plutonio senza distinguere quelli
adeguati per l'uso in ordigni nucleari da quelli che non lo sono.
Durante il funzionamento di un reattore nucleare, parte dell'uranio 238
(l'isotopo più presente in natura, con percentuali dell'ordine del
99,3% nell'uranio naturale) si converte naturalmente in plutonio 239
dopo la cattura di un neutrone; gran parte del plutonio formatosi poi è
direttamente consumato dentro il reattore per la produzione di energia
- il plutonio 239 è fissile (cioè può generare direttamente energia,
senza processi intermedi) come l'uranio 235 (l'isotopo meno diffuso in
natura, in misura dello 0,7%), mentre l'uranio 238 è fertile, cioè si
può trasformare in "carburante" dopo aver catturato un neutrone e dopo
un certo periodo di decadimento. Il plutonio 239, rimanendo dentro il
reattore, tende anche ad assorbire neutroni "vaganti" nel reattore, e
trasformarsi in plutonio 240 e successivi. Aumentando la permanenza del
combustibile nel reattore, la porzione di plutonio con massa atomica
superiore a 239 aumenta. Per avere un ordigno stabile la porzione di
plutonio 239 deve essere almeno del 93%: con percentuali inferiori le
"impurità" di plutonio tendono a far detonare precocemente un ordigno
prima di raggiungere la massa critica necessaria o a non farlo detonare
interamente (a causa dell'alta emissione di neutroni per fissione
spontanea dell'isotopo 240 del plutonio), quindi non consente la
costruzione di un ordigno stabile e della potenza voluta. Affinché la
presenza di "impurità" sia estremamente contenuta, il "burnup" del
combustibile (ovvero la quantità di energia estratta per unita di massa
del combustibile) nei reattori dedicati alla produzione di plutonio per
ordigni deve essere mantenuto all'incirca sui 1000 MWd/tonnellata,
essendo i reattori moderni con burnup ad oltre 45.000 MWd/tonnellata il
plutonio derivante è di gran lunga troppo sporco di impurità per la
possibile proliferazione, ma utilizzabile unicamente per
l'elettrogenerazione. Per produrre plutonio "weapons grade" (ovvero
adatto alla produzione di armi nucleari) si devono quindi utilizzare
reattori appositamente studiati per mantenere burnup bassi e per essere
"scaricati" senza dover essere spenti (quali ad esempio i reattori di
tipologia RBMK, CANDU ed i Magnox per citare quelli più "presenti sul
mercato"), infatti i normali reattori PWR e BWR devono essere spenti
per poter sostituire il combustibile. Quindi, data la scarsa qualità di
plutonio proveniente da un normale reattore, vi sarebbero enormi rischi
e difficoltà relativi alla fabbricazione di un ordigno siffatto e alte
probabilità che la detonazione non avvenga come previsto, a fronte di
una grande quantità di materiale necessario (almeno tutti gli scarti di
un intero ciclo, il che implica libero accesso alle scorte). Tuttavia
la probabilità di detonazione prevista, anche con plutonio di bassa
qualità, non è trascurabile (~10%), ed in ogni caso anche una
detonazione parziale potrebbe avere effetti simili a quelle di
centinaia di tonnellate di esplosivo convenzionale (abbastanza per
radere al suolo un piccolo quartiere). Questa impresa, date le
difficoltà descritte sopra, non è alla portata di un gruppo
terroristico ma necessita della struttura scientifica e produttiva di
una nazione per essere compiuta, che però ha altri sistemi più
efficienti e meno vistosi per la produzione di plutonio o uranio per
applicazioni militari, come l'ultracentrifugazione a catena: non ha
senso che una nazione investa soldi, specializzazione tecnologica e
reputazione diplomatica in un ordigno di scarsa potenza che ha ben
scarsa probabilità di funzionare correttamente (quindi inutile a scopo
bellico).Attualmente gli impianti nucleari vengono utilizzati anche per
riciclare l'uranio ed il plutonio delle testate nucleari ed agevolare
il disarmo. [Cf. Voce sul plutonio della World Nuclear Association][Cf. Voce sul combustibile MOX e la proliferazione della World Nuclear Association]
Quanto costa una centrale nucleare moderna?
Risposta breve: Un reattore da 1 GW in Europa o in USA costa circa da 3 a 5 miliardi di
€, a seconda delle voci di spesa considerate. Questa cifra inoltre
dipende dalla tecnologia utilizzata, che sia già matura o sia ancora in
fase di sviluppo durante la costruzione, dal numero di reattori per
centrale, da tutte le variabile influenti sul tempo necessario per la
costruzione e persino dal piano finanziario adottato. Risposta Lunga: E' difficile dare una stima del costo di una centrale nucleare, in quanto
esso può subire moltissime variazioni a seconda della tecnologia
utilizzata, del numero di reattori per ogni centrale, del numero di
reattori totali da costruire per ogni nazione che, sottostando a
differenti agenzie per la sicurezza nucleari, sottostanno a regolamenti
ed autorizzazioni differenti e che possono causare aumenti dei costi di
installazione o dilazioni nei tempi di approvazione dei progetti; è il
caso ad esempio dei reattori AP-1000 o EPR che sono già stati approvati
da alcune agenzie nucleari mentre altre vogliono altre documentazioni
per rilasciare le autorizzazioni per la costruzione. Anche il numero di
tecnologie utilizzate per ogni nazione influisce sul costo di ogni
singolo reattore, per il fattore delle economie di scala. Un caso
emblematico si può considerare quello finlandese e poi quello cinese,
anche se per due filiere differenti di reattori. In Finlandia si sta
costruendo il primo reattore di tipologia EPR al mondo, essendo in
pratica il prototipo della sua tipologia, sono occorse in corso d'opera
numerose modifiche per quanto riguarda ogni aspetto costruttivo.
L'agenzia nucleare finlandese poi ha richiesto numerose modifiche del
progetto originario e ha richiesto certificazioni successive a quelle
richieste nelle prime fasi costruttive. Queste modifiche hanno richiesto
quindi un allungamento dei tempi e dei costi; si può aggiungere che
essendo al tempo il solo reattore in costruzione, tutti i costi di
sviluppo e le modifiche si sono inizialmente scaricate su quell'unico
reattore. In Cina invece è in corso di costruzione un gigantesco
programma nucleare civile di elettroproduzione, in questo programma sono
in costruzione decine di reattori e sono in fase di approvazione o
sviluppo oltre 100 altri reattori, in questo modo tutti i costi sono
diminuiti. Nelle centrali nucleari cinesi, ci sono al minimo 4 reattori
per ogni impianto, questo permette di abbattere notevolmente i costi di
costruzione e si assicura una domanda di materiali e manovalanza
costante per un lungo periodo. Utilizzando tecnologie rodate (al momento
sono in costruzione circa 25 reattori, prevalentemente CPR-1000 e
AP-1000) si diminuiscono anche i costi di sviluppo e di approvazione per
le stesse, visto che una tipologia approvata può essere costruita in
qualsiasi luogo del paese. Anche per questo, per i reattori CPR-1000, i
costi di installazione risultano essere a meno di 2 miliardi di dollari
per reattore, con previsioni di scendere fino a quasi 1,5 miliardi per
reattore, con notevolissime economie di scala e risparmi in fase
costruttiva ed economicità dell'energia prodotta. Un ultimo parametro che
contribuisce in modo sostanziale ai costi per la costruzione di una
centrale nucleare viene chiamato "costo del denaro". Questa formula che
può apparire paradossale comprende il costo dell'operazione finanziaria
necessaria all'accumulo di denaro occorrente per la costruzione della
centrale. Dovendo passare attraverso gli istituti bancari e assicurativi
per operazioni di tale rilevanza gli interessi maturati sugli
investimenti necessari consistono in un contributo a doppia cifra, anche
se difficilmente stimabile, situato fra il 30 e il 50 % del costo
complessivo dell'impianto a seconda dei tassi di interesse applicati e
del tempo di costruzione. Tale rilevante contributo può essere ridotto
accelerando i tempi di costruzione dell'impianto e sovvenzionando
statalmente tassi di interesse ridotti. Nel 2008 Georgia Power ha stimato
i costi della costruzione del suo impianto a doppio reattore da 2,2 GW
complessivi (costo impianto + interessi) variabile dai 10 ai 14 miliardi
di dollari a seconda del tipo di dilazione del finanziamento concessa.
Quali nazioni prospettano di produrre energia nucleare nei prossimi anni?
Risposta unica: Nel mondo sono molte le nazioni che prospettano di produrre elettricità da fonte nucleare nei prossimi anni: [1] e [2].
Fra le nazioni che hanno avuto maggior rilievo sulla stampa c'è l'Iran,
che si vuole dotare di reattori nucleari civili per aumentare la sua
quota di gas per l'esportazione, visto che il gas è diventato negli
ultimi anni la fonte di gran lunga preponderante per
l'elettrogenerazione iraniana [3].
Questa parte del programma nucleare iraniano è sotto l'egida della IAEA
(Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica). Altra nazione sono gli
Emirati Arabi Uniti, dove all'inizio del 2010 è stato firmato un
contratto per la fornitura di 4 reattori di tipologia APR-1400 coreani:
la nazione è destinata a diventare il primo paese arabo con centrali
nucleari commerciali. Fra i principali programmi per nuova
elettrogenerazione si possono poi ricordare quello turco, quello
vietnamita e quello polacco, che prospettano la costruzione di oltre 5
GW di potenza nucleare ognuno nei prossimi anni, per sopperire
all'aumento della domanda e diminuire le importazioni di combustibili
fossili (o diminuire anche le emissioni di CO2 nel caso della Polonia,
avendo quest'ultima le più grandi riserve europee di carbone e
producendo elettricità quasi solo da questa fonte).
Quanto uranio c'è nel mondo e per quanto durerà?
Risposta breve:
Gli ultimi dati adottati dalla comunità scientifica internazionale, cioè
il report IAEA e NEA "World uranium consumption & resources" del
2009 riporta circa 6.3 milioni di tonnellate di uranio ad un costo
estrattivo inferiore ai 260 $/kg di uranio, ovvero risorse per un secolo
con il ritmo di consumo del 2009 e tecnologia attuale. Inoltre,
moltissimi depositi devono ancora essere scoperti o catalogati in modo
certo (raddoppiando almeno le risorse a oggi sconosciute) mentre molti
altri saranno economicamente sfruttabili con il progresso tecnologico:
una stima ragionevole parla di quasi 40 milioni di tonnellate
(includendo le riserve non convenzionali, ma escludendo l'acqua di
mare), sufficiente ad alimentare i reattori del pianeta, anche
considerando una sensibile crescita nella domanda di energia, per almeno
150 anni (come dimostrato in uno studio ad opera del KIT di
Karlsruhe e pubblicato dall NEA (Nuclear Energy Agency)). Questa stima si
può moltiplicare per 100 nel caso di adozione di reattori a spettro
veloce di Gen. IV, peraltro già realizzati in prototipi sperimentali in
passato in Francia, Giappone ed Unione Sovietica. Risposta Lunga:
Come per il petrolio, anche la quantità di riserve uranifere dipende in
larghissima parte dai costi prefissati per l'estrazione. Estrarre uranio
ha costi dipendenti dalla posizione della miniera (e quindi profondità e
difficoltà a raggiungere il deposito, situazione geopolitica, ecc...) e
dipendenti della purezza del minerale: l'uranio viene trovato,
similmente al ferro, sempre sotto forma di ossidi (composti
dell'ossigeno) nelle rocce. Tanto più uranio la composizione della
roccia contiene, tanto meno sarà necessario scavare e raffinare e quindi
tanto minori saranno i costi di estrazione. Il report IAEA "World
Uranium Consumption & Resources" del 2009 riporta oltre 6,3 milioni
di tonnellate di uranio economicamente estraibile a prezzi inferiori ai
260 $/kg, fra le risorse identificate. Quasi tutte le risorse
(5,4milioni di t su 6,3 milioni di t totali) sono estraibili a costi
inferiori i 130$/kg, mentre ulteriori risorse sono presenti attualmente a
costi superiori. Altre 7,8 milioni di tonnellate di uranio come risorse
non ancora scoperte, ma speculate per via della conformazione geologica
delle zone terrestri, sempre ad un prezzo massimo di 260 $/kg. Ad
esempio dal 2007 ad oggi sono aumentate (anche significativamente) le
riserve note di uranio per molti paesi, a seguito di nuovi rilievi
geologici in paesi in via di sviluppo, come il Kazakistan [1]
che è arrivato a scoprire sul suo suolo riserve di oltre 1,5 milioni di
tonnellate di uranio alla fine del 2009, quasi raddoppiando le stime
del 2007 ed aumentandole notevolmente rispetto al report IAEA datato 1°
gennaio 2009. L'uranio è un materiale molto presente sulla crosta
terrestre: molte tipologie di roccia ne contengono percentuali non
trascurabili ed anche nell'acqua marina è presente
(si stima ne contenga 5 miliardi di tonnellate). Tuttavia data l'estrema
diluizione è difficile stimarne il quantitativo e l'estrazione è
considerata al momento, anti-economica (sebbene esistano già degli
impianti pilota in Giappone). In ogni caso, solo considerando le 6,3Mt
ad oggi scoperte, al ritmo di consumo odierno (69 mila tonnellate
annue [2]),
si determina un'autonomia di circa 90 anni. Un ulteriore aumento della
domanda di uranio e del prezzo medio, potrebbe portare (come in parte ha
già portato, come nel caso Kazako) ad un nuovo interesse nelle
esplorazioni uranifere nel mondo ed alla scoperta di nuovi giacimenti.
Un aumento del prezzo considerato economicamente conveniente per
l'estrazione dell'uranio (passare cioè da risorse estraibili a meno di
260$ a 400$ ad esempio) porterebbe un notevole aumento delle risorse,
diventando economicamente convenienti anche estrazioni non convenzionali
come quelle dai minerali fosfatici (oggi solo marginalmente utilizzati o di nuovo allo
studio per l'estrazione) o diverrebbe ancora più remunerativa
l'estrazione dalle ceneri delle centrali a carbone, finestra che si sta
aprendo solo ora all'orizzonte (soprattutto in Cina),
dopo alcune sperimentazioni. Il report afferma poi che, con lo scenario
di massimo sviluppo oggi pronosticato (passando dagli attuali 375GW a
785GW del 2035), si arriverebbe al 2035 con l'aver consumato meno della
metà delle risorse uranifere certe ad oggi conosciute. In questa
trattazione non sono stati presi in considerazione i reattori
autofertilizzanti, principalmente perché molto poco utilizzati a livello
mondiale, essendone al 2010 in funzione solo uno,
presso la Centrale nucleare di Beloyarsk in Russia; altri 8 sono
pianificati (2 in Russia, sempre presso Beloyarsk, 2 in India
presso Kalpakkam e 4 in Cina presso la futura centrale di Sanming, dello
stesso modello del reattore ora in costruzione in Russia). Il
riutilizzo del combustibile dopo riprocessamento (si può paragonare al
comune riciclo della spazzatura) aumenta la durata effettiva delle
riserve di uranio,
i reattori autofertilizzanti invece convertono in combustibile tutto
l'uranio, mentre oggi viene utilizzata solo una minima frazione
(dell'ordine dell'1%) del potere energetico totale. In futuro, il
centinaio di anni di riserve da un lato si ridurrà a causa dell'aumento
della domanda a seguito della costruzione di nuovi reattori (circa 60
ora in costruzione) dall'altro la scoperta di nuovi giacimenti ed il
progresso tecnico promettono di incrementare moltissimo la sostenibilità
a lungo termine delle riserve uranifere mondiali (possiamo solo
speculare la tecnologia mineraria e nucleare del 2100). A causa della
grande mutevolezza degli scenari sia politici (cambiamenti di strategia
energetica) che minerari (trovare nuovi giacimenti e perfezionare i
metodi estrattivi) che tecnologici (reattori di IV gen e/o massiccio
utilizzo di reattori autofertilizzanti) e di fonte energetica (passare
ad utilizzare o solo torio o miscele di torio-uranio o passare alla
fusione termonucleare controllata) è difficile stimare quanto dureranno
le riserve di uranio tenendo conto di questi imprevedibili fattori
futuri, tuttavia sicuramente le prospettive sono assai promettenti: uno
studio recente pubblicato dal KIT (Karlsruhe Institute of Technology) dimostra che se si
considerano le riserve convenzionali (accertate, prognosticate e
speculative) e non convenzionali (fosfati, scisti, ecc.) si ha una
disponibilità di uranio dell'ordine di quasi 40 milioni di tonnellate,
sufficienti ad alimentare le centrali nucleari mondiali per circa 150
anni, anche se si considera una crescita della domanda di energia che
contempli un aumento di 6 volte (!) entro fine secolo della domanda
attuale. La situazione poi migliora notevolmente (moltiplicando le
riserve per un fattore 100, grazie alla fertilizzazione dell'uranio) se
si prospetta l'uso dei reattori a spettro veloce di tipo fertilizzante,
di cui si è fatto cenno sopra.
Quanto incide il costo dell'uranio sul costo di generazione dell'energia elettrica?
Risposta breve:
Relativamente poco. La componente "uranio", che è una delle parti della componente
"ciclo del combustibile", incide per una piccola frazione del costo totale di
generazione dell'energia elettrica, stimabile negli Stati Uniti
complessivamente a meno di 5 $/MWh, rispetto ad una pari componente da
fonti fossili che raggiunge i 50 $ o oltre per quanto riguarda le
centrali a gas o petrolio nel caso americano. Uno studio condotto dall'Università di Pisa ha dimostrato che il costo
dell'uranio incide percentualmente allo stato attuale per l'8% circa.
Risposta Lunga:
La componente "uranio" incide per molto poco nel prezzo di generazione
dell'energia elettrica da fonte nucleare. Dati WNA stimano che a Gennaio
2010 [1] per
produrre 1 kg di combustibile a base di uranio era necessario spendere circa 2500
$, con un burnup (parametro che rappresenta la quantità di energia che
si può estrarre per unità di combustibile) di circa 45 MWd (1080000 kWh), questo
equivale ad un costo di 0,23 c$/kWhe (2,31 $/MWhe) prodotto, il tutto
partendo da 8,9kg di ossido di uranio ad un costo di 115 $/kg e con un
arricchimento fra il 3,6 e 3,7%. Questo costo diventa una percentuale
più o meno cospicua (in ogni caso ridotta) del costo di generazione
dell'energia elettrica da fonte nucleare a seconda dell'età
dell'impianto, infatti un impianto giovane per motivi economici ha un
maggior costo di gestione (e quindi un costo dell'energia prodotta
maggiore) poiché deve ripianare il debito acquisito per la sua
costruzione, un impianto invece già "ripagato" non ha questa componente e
quindi il costo di produzione è molto inferiore e la generazione di
elettricità è considerevolmente più economica. Possiamo poi anche andare
a vedere i prezzi alla fonte, suddivisi per costo del combustibile,
manutenzione ed operazione, delle centrali energetiche statunitensi.
in questo caso vediamo che il nucleare ha un costo per il combustibile
attorno ai 5 mills$/kWh (cioè 5 $/MWh), e questo è comprensivo di costo
dell'uranio, arricchimento, fabbricazione combustibile. Il costo totale
della fonte nucleare è poi sui 20 $/MWh negli ultimi anni, quindi il
combustibile (nella sua interezza) incide per il 25% sul totale con
minime variazioni e l'uranio per meno del 10 %. Al contrario per le
centrali a gas, dove la materia prima combustibile incide per oltre 50
$/MWh sul prezzo finale, che si attesta sui 60 $/MWh, incidendo quindi
per oltre l'80 % sul costo finale dell'energia. Si nota quindi che
piccole variazioni del costo della componente "gas" incidono molto sugli
aumenti o sulle diminuzioni del costo dell'energia da quella fonte,
mentre anche discrete variazioni sulla componente "uranio" incidono molto poco
sulla fonte nucleare (essendo la componente "uranio" solo una componente
di "combustibile" per l'energia nucleare, mentre per la fonte fossile
ne rappresenta quasi l'intero costo), ovvero se il costo dell'uranio grezzo raddoppiasse
il costo complessivo dell'energia nucleare incrementerebbe di meno
del 10 %. Questo, unito alla stabilità geopolitica delle maggiori nazioni
produttrici e alla relativa reperibilità di uranio, specialmente
incrementando i costi di estrazione (vedi domanda "Quanto uranio c'è nel
mondo e per quanto durerà?") determina che la fonte nucleare presenta
un costo decisamente meno soggetto alle fluttuazioni del mercato
rispetto alle fonti fossili.
I rifiuti radioattivi possono essere trasportati in sicurezza? La loro gestione potrebbe essere un problema in Italia?
Risposta breve:
Si, i rifiuti radioattivi possono essere trasportati in sicurezza, non
si è infatti mai registrato un evento incidentale grave inerente il
trasporto di materiale radioattivo fuori da un impianto nucleare che
abbia messo in pericolo la salute della popolazione: gli unici eventi
mai accaduti sono quelli dentro i vari complessi industriali, energetici
o di ricerca.
Risposta Lunga:
Il trasporto di materiale radiologico è una delle fasi più accurate di
tutto il processo di utilizzo di materiale radioattivo. Il trasporto è
soggetto a numerose disposizioni sia nazionali che internazionali che ne
regolamentano la procedura nei dettagli. Come per le spedizioni di denaro, tutti i
tragitti e gli orari sono mantenuti segreti, ma rispetto a questi le
sicurezze utilizzate sono molto maggiori. Per il trasporto di elementi di
combustibile esausto, i più pericolosi in caso di incidente perché
possono dare dosi rilevanti, sono utilizzati trasporti speciali sia su
gomma che su linee ferrate. I vari elementi di combustibile sono poi
inseriti dentro dei CASK per il trasporto (denominati CASTOR), che sono
studiati per resistere ad incidenti severi; si può immaginare un CASK come
un lingotto di acciaio a forma di cilindro cavo. La forma è studiata
per massimizzare la distribuzione delle forze in un eventuale impatto e
la presenza di lamelle sulla superficie esterna permette di dissipare il
calore derivante dal decadimento radioattivo degli elementi in esso
contenuti. I contenitori per il trasporto devono resistere a cadute da
alcune decine di metri, resistere al fuoco per 1 ora senza che
l'elemento di combustibile in esso contenuto aumenti la propria
temperatura di più di qualche grado, resistere all'impatto di un "treno
standard", tutto questo senza compromettere l'integrità dello stesso
guscio protettivo se non in modo lieve ed impedire in modo assoluto il
rilascio di materiale radioattivo all'esterno. Questi CASK sono poi
messi su rimorchi o vagoni speciali, che hanno ulteriori misure di
sicurezza come "airbag" alle due estremità dello stesso per smorzare
ulteriormente eventuali urti. In generale quindi è difficile
immaginare il trasporto in se come una criticità per la salute: la
regolamentazione è ferrea e le misure anti-infortunistiche rigorose e il
viaggio è un evento straordinario che avviene poche volte l'anno a
fronte di immense quantità di elettricità generata.[Cf. WNN]
Per paragone, il trasporto di gas e petrolio ha determinato centinaia di
morti, di cui almeno 26 eventi con più di 5 vittime nel trentennio
'69-'99.
Il combustibile esausto è radioattivo per 10mila anni?
Risposta breve: Il combustibile sarà radioattivo per sempre teoricamente, come radioattivi per sempre
siamo noi col nostro potassio naturale o i muri delle nostre case: la
radioattività è un fenomeno che diminuisce, ma teoricamente non
scompare, ma va riducendosi nel tempo con legge esponenziale. Il combustibile esausto, se
trattato opportunamente (cioè dopo riprocessamento, ossia recupero del
plutonio e dell'uranio dagli elementi di combustibile esausti, e
separazione dei prodotti di fissione e attinidi minori - ossia gli
elementi più "pesanti" dell'uranio - quali scarti), può rimanere
radiotossico per circa 10.000 anni, ovvero permane il rischio di somministrare
una dose superiore a quella del materiale originariamente presente in
miniera; non necessariamente tuttavia questo implica un pericolo per la
salute.
Risposta Lunga: Non è innanzitutto corretto dire che la radioattività durerà per un tale
periodo, poiché la radioattività è un processo statistico e stocastico,
cioè l'attività di un campione continua a diminuire decadendo
esponenzialmente nel tempo, cioè è come un rubinetto aperto che svuota
una grande riserva d'acqua: ci arriverà solo in un tempo "infinito",
all'inizio emetterà al massimo della sua portata, poi sempre meno finché
verrà il momento in cui rilascerà una goccia d'acqua ogni tanto,
continuando a sgocciolare. Questo vale tanto per gli scarti radioattivi
quanto per la comune radioattività naturale (difatti grazie a misure di
attività si stabilisce quanto il rubinetto "si è svuotato" e da questo
può determinare l'età delle rocce che compongono la Terra o determinati
reperti archeologici). Quindi è possibile misurare la radioattività di
una scoria di combustibile quando questa esce dal reattore e
successivamente calcolare il tempo in cui sarà raggiunto un valore di
soglia definito sicuro dal punto di vista sanitario. In genere, si considera la radiotossicità
(dipendente dalla dose (vedi domanda che cos'è la dose?)
che rischia di venire somministrata per ingestione ad esempio) del
minerale uranifero di partenza come punto da raggiungere per le scorie
per considerarle innocue, benché anche radiotossicità maggiori non
siano necessariamente radiologicamente significative per la salute
umana. Ovvero qual è il tempo in cui una scoria da combustibile
raggiunge una radiotossicità pari a quella dell'uranio naturale
(presente in miniera)? A seconda di come si tratti il combustibile
usato: posto nel deposito geologico un elemento di combustibile
esattamente come uscito dal reattore (strada adottata dai paesi
scandinavi), questo impiegherà circa 100.000 anni per raggiungere la
stessa radiotossicità del combustibile di partenza (sempre considerando
combustibile a 33 GWd/t di burnup). Per un pareggio dopo 10.000 anni la
scoria deve essere riprocessata (strada inglese, francese, giapponese),
cioè ne vanno separati chimicamente i componenti principali: plutonio,
uranio e prodotti di fissione con attinidi minori (ovvero americio,
nettunio e curio, cioè quegli elementi artificiali che nella tabella
periodica degli elementi sono classificati come attinidi, sono più
"pesanti" dell'uranio, e sono prodotti nei reattori in quantitativi
minori rispetto al plutonio). Questa separazione permette di avere da
una parte uranio che può essere utilizzato per creare nuovo
combustibile tramite un nuovo arricchimento (giacché risulta arricchito
circa all'1%, quando quello naturale si trova circa allo 0,7%),
plutonio che miscelato con l'uranio impoverito permette di creare il
combustibile MOX, ed infine i prodotti di fissione con gli attinidi
minori, che sono la vera parte delle scorie, che è mandata allo
stoccaggio geologico (dopo preventiva vetrificazione in vetri di tipo
vulcanico). Questa parte raggiunge una radiotossicità pari a quella del
minerale uranifero di partenza in circa 10.000 anni, cioè in un decimo
circa rispetto ad un elemento di combustibile non riprocessato. La
separazione ulteriore degli attinidi minori dal resto delle scorie
potrebbe ottimizzare ulteriormente questo periodo di giacenza, tuttavia
è per il momento non vantaggioso economicamente. Sono allo studio nuove
tecniche di riprocessamento ma si prevede che saranno implementate in
concomitanza con l'avvento della Gen. IV. L'elemento di combustibile
esausto lo possiamo considerare idealmente come un cumulo di sabbia in
cui la gran parte è composto da uranio, una piccola porzione da
plutonio ed il resto da prodotti di fissione e transuranici. Da questo
cumulo di sabbia è "facile ed economico" estrarre l'uranio ed il
plutonio, visto che sono due soli elementi e sono in quantità
significative, la separazione dei transuranici è invece molto più
costosa, e saranno necessari diversi passaggi su diversi "setacci" per
sanare piccole quantità. Infatti nella nostra "sabbia" iniziale,
considerando un arricchimento al 3.5% circa ed un burnup di 33 GWd,
l'uranio è circa il 94% del totale, i prodotti di fissione circa il 5%,
il plutonio circa l'1% e gli attinidi minori meno dello 0.1%. La loro
scarsità, unita al fatto che sono molti elementi differenti, rende non
economica (ma comunque fattibile) l'ulteriore estrazione ad oggi.
Questa estrazione permetterebbe di ridurre la radiotossicità delle
scorie, che ora sono solo prodotti di fissione, a circa 300-400 anni,
cioè un periodo di tempo comparabile con la vita umana e con le scorie
di medio e basso livello, offrendo quindi soluzioni molto più
economiche per lo stoccaggio delle stesse.
Non si sono ancora trovate soluzioni per le scorie e ci sommergeranno?
Risposta breve: Sono state trovate numerose soluzioni per lo smaltimento delle scorie
derivanti dai processi che usano radioisotopi, alcune già attuate, altre
in attuazione, altre in via di realizzazione ed altre ancora allo studio. Non
esiste e non esisterà però mai una soluzione definitiva per tutto, ma
esisteranno soluzioni particolari per problemi specifici con differenti
gradi di riutilizzo dei materiali o consumi di energie o risorse per la
messa in sicurezza dei vari rifiuti. Risposta Lunga:
Innanzitutto si deve fare una distinzione fra scorie radioattive:
esistono le scorie ospedaliere, le scorie industriali, quelle da
elettrogenerazione e quelle da ricerca (che si possono in larga parte
assommare a quelle dell'elettrogenerazione). Si deve poi distinguere il
loro livello di radiotossicità, infatti esistono scorie di I, di II e
di III livello. Le categorie sono in ordine di attività (ovvero di
disintegrazioni nucleari per secondo), le prime due categorie sono a
bassa attività, generalmente composte da materiali contaminati da
materiali attivati (cioè materiali resi radioattivi per irraggiamento
con neutroni), le scorie di terzo livello sono le più pericolose e
generalmente sono costituite da prodotti di riprocessamento di scorie
meno pericolose, parte dei rifiuti industriali, scientifici,
ospedalieri e del combustibile nucleare esausto. La quantità prodotta
dipende molto anche dal tipo di centrale e dalla sua potenza (ovvero
dal combustibile utilizzato); per dare una misura media le 181 centrali
oggi in funzione in Europa, assieme alle industrie, centri di ricerca
ed ospedali, producono annualmente 40 mila metri cubi (ovvero un cubo
di lato poco maggiore di 34 metri) di rifiuti, di cui 1000 (un
cubo di 10 m di lato) di terzo livello, ovvero ad alta pericolosità.
Per confronto, nella stessa Europa sono 1000 milioni di metri cubi i
rifiuti industriali annualmente prodotti. In termini energetici per
ogni GWh (circa l'energia necessaria ad una metropoli come Milano per 1
ora) prodotto, stando alla media europea, vengono prodotti 0,055 metri
cubici di rifiuti radioattivi generici (di cui 0,0055 metri cubici ad
alta pericolosità). Le centrali più moderne sono decisamente al di
sotto di questa media. Per generare la stessa energia con carbone o
lignite si produrrebbero (in media) 180 tonnellate di rifiuti solidi,
corrispondenti a circa 500 metri cubici, ovvero 10 mila volte tanto.