Sono
le
di
|
La tematica delle scorie nucleari di V. Romanello, G.
Lomonaco e N. Cerullo L’energia
nucleare, con una percentuale di produzione elettrica nel mondo pari al 17%
(24% nei paesi OECD, 35% nell’Unione Europea) riduce annualmente l’immissione
di 2.4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica[1] nell’atmosfera (la cui
concentrazione è aumentata sensibilmente nell’ultimo secolo[2]), costituendo
altresì una forma di energia abbondante, poco soggetta alle fluttuazioni dei
mercati, e rispettosa dell’ambiente. Prodotto
della fissione del combustibile nucleare sono le cosiddette scorie nucleari. Con tale termine si
intende indicare principalmente il combustibile che giunto alla fine del
proprio ciclo di vita deve essere smaltito, ma
anche una serie di materiali divenuti radioattivi nel corso del funzionamento
del reattore nucleare; infine il reattore stesso, giunto a fine vita dovrà
essere smantellato. Bisogna tuttavia notare che i cosiddetti ‘materiali attivati’,
ossia quelli che originariamente non erano radioattivi ma lo sono divenuti nel
corso dell’esercizio dell’impianto per l’effetto dei neutroni (come ad esempio
l’acciaio che costituisce il recipiente del vessel – contenitore in pressione
del combustibile nucleare), pongono minori problemi a causa della loro
(relativamente) bassa radioattività e rapidità di decadimento. L’argomento
delle scorie nucleari costituisce il cavallo di battaglia di un gruppo di
“ambientalisti” nel corso di una decisa “guerra” all’impiego pacifico
dell’energia nucleare. In realtà quello delle scorie radioattive costituisce un
falso problema, in quanto esse sia per la loro limitata quantità che per le
precauzioni delle quali il loro trattamento e la loro conservazione sono fatti
oggetto, praticamente annulla la loro potenziale pericolosità. Comunque
qualsiasi attività umana richiede un prezzo e quelli che accettiamo, anche per
molte attività “normali” (compresa la produzione di energia per via
convenzionale), sono di gran lunga più elevati di quelli dovuti alla produzione
di energia per via nucleare. Scopo
di questo articolo, pertanto, è anche
quello di evidenziare quanto si fa in questo campo e la limitata (seppur
presente) pericolosità delle scorie nucleari. Bisogna
tenere innanzitutto presente che i rifiuti nucleari vengono suddivisi in tre
grandi categorie: -
basso livello: sono i più abbondanti e scarsamente pericolosi a lungo
termine (ad esempio il materiale sanitario usato nella medicina nucleare, gli
indumenti usa e getta forniti in una visita ad un impianto nucleare, etc.) che
costituiscono il 90% delle scorie prodotte ma contengono solo l’1% della
radioattività di origine antropogenica; -
medio livello: sono costituiti, ad esempio, dalle guaine di lega di
zirconio degli elementi combustibili del reattore; richiedono una schermatura,
ma costituiscono solo il 7% delle scorie (e contengono il 4% della
radioattività); -
alto livello: costituiscono il 3% delle scorie ma contengono il 95%
della radioattività e sono i più pericolosi a lungo termine. L’ultima
categoria è sicuramente quella che pone i maggiori rischi, dati i periodi di
dimezzamento[1]
molto lunghi e la complessa catena di decadimenti necessaria per raggiungere la
stabilità nucleare. I
436 reattori nucleari presenti in 31 nazioni producono annualmente migliaia di
tonnellate di scorie. Un
reattore ad acqua pressurizzata da 1000 MWe scarica annualmente da
40 a 70 elementi combustibili contenenti 461.4 kg di uranio ciascuno; tuttavia
il 94% del combustibile esausto è costituito da uranio-238, l’1% da uranio-235
(elementi già presenti in natura e quindi considerati non pericolosi), il 3-4 %
da prodotti di fissione (quali cesio, stronzio, iodio, tecnezio, ecc.),
pericolosi se liberati in caso di incidente, ma innocui dopo qualche centinaio
di anni se custoditi in un deposito geologico. Gli elementi di maggiore rischio
perché molto più pericolosi dell’uranio naturale presente in natura sono
costituiti per l’1% da i vari isotopi del plutonio e per lo 0.1 % dagli attinidi minori (nettunio, americio e
curio; così chiamati perché prodotti in minore quantità nei reattori nucleari
tradizionali). Da una semplice analisi si rileva che un PWR
(reattore ad acqua pressurizzata) di grossa taglia, annualmente scarica circa
2÷3 kg di plutonio, 0.2÷0.3 kg di attinidi minori. Per avere un termine di
paragone con le fonti tradizionali, si può rilevare che il volume di rifiuti
prodotto da queste ultime per produrre la stessa quantità di energia è milioni
di volte maggiore. Per meglio visualizzare questo dato basti pensare che è
stato calcolato che se un uomo per soddisfare i propri bisogni energetici
durante tutta la sua vita usasse la sola energia nucleare[2] produrrebbe un
volume di scorie (già vetrificate) minore di quello di una lattina da 33 cl.
(fig. 1)! Figura 1 – Volume di scorie
vetrificate prodotte nel corso della vita di un uomo che utilizzi la sola
energia nucleare per soddisfare i propri bisogni Quando
si affronta dunque la tematica dell’energia nucleare, ed in particolare quella
delle scorie, bisogna tenere presenti questi numeri, ma anche considerare in
che modo tali scorie, per quanto ridotte in termini di massa (volume) possano
costituire un pericolo potenziale attuale o futuro. L’approccio
attualmente seguito per effettuare tale valutazione (in verità fortemente
conservativa) è quello di considerare il lasso di tempo necessario affinché,
decadendo, tali prodotti raggiungano la radiotossicità· (che è una misura della
pericolosità potenziale) dell’uranio originariamente presente in miniera. La radioattività è un
fenomeno fisico complesso, caratterizzato da diverse grandezze; quello che
interessa però ai fini della salute umana è il cosiddetto equivalente di dose, ossia l’energia specifica depositata nel
tessuto umano corretta da opportuni fattori di qualità. In particolare bisogna
considerare la natura delle radiazioni, la loro energia, il meccanismo con cui
un radionuclide può essere assorbito e poi eliminato dal corpo, ecc. Quando si affronta la
tematica delle scorie nucleari ci si riferisce, di norma, alla radiotossicità
per ingestione, poiché si ipotizza (anche qui forse con eccessiva prudenza)
che dopo un certo lasso di tempo, per
quanto lungo, tali prodotti vengano disciolti dall’acqua e trasportati
attraverso le falde acquifere, costituendo queste quindi una via di ritorno per
l’uomo. A
tal proposito, è fondamentale tenere presente che secondo l’attuale filosofia
di smaltimento le scorie nucleari vengono depositate in appositi siti (i
cosiddetti depositi geologici) dotati di particolari caratteristiche, durevoli
nel tempo. Inoltre le scorie, dopo essere state vetrificate (o comunque
inglobate in una opportuna matrice inerte), vengono inserite in appositi
contenitori protettivi di elevata sicurezza (resistenti anche alla corrosione a
lunghissimo termine). Il fine di tali barriere naturali ed ingegneristiche
predisposte è quello di ridurre a valori di fatto nulli l’equivalente di dose
che le popolazioni che abiteranno in prossimità di tali depositi geologici
potrebbero ricevere in un futuro remoto. Gli
USA hanno previsto per il deposito delle scorie nucleari delle centrali il sito
di Yucca Mountain, situato nel deserto del Nevada, a circa 100 miglia da Las
Vegas. Esso è stato sottoposto innanzitutto dal DOE (Department Of Energy) ad una approfondita analisi geologica con una
spesa di 6 miliardi di dollari[3]. Inoltre l’EPA (Environmental Protection Agency), cioè l’ente di controllo
ambientale, ha richiesto che fra 10000
anni l’equivalente di dose ricevuto dagli abitanti in seguito ad un eventuale
rilascio dei radionuclidi, sia non superiore a 20 mrem/anno. Per valutare
l’esosità della richiesta, si noti che
l’equivalente di dose medio naturale (che assorbiamo senza danni da
centinaia di migliaia di anni) è pari in Italia a circa 300 mrem/anno. Come se
ciò non bastasse, recentemente tale lasso di tempo è stato oggetto di critiche,
poiché ritenuto insufficiente e si è richiesto addirittura una aumento di tale
periodo fino a 100000 anni. Tale richiesta si commenta da se: è come pretendere
da un ingegnere che realizzi una casa che non solo regga al carico statico, ad
un terremoto di forte intensità o addirittura all’uragano "Ivan il terribile", ma che anche,
in caso di un imprevedibile crollo rovinoso ed improvviso dell’edificio,
nessuno degli occupanti si faccia alcun
male! In
questo quadro, uno degli approcci più seguiti oggi è quello di calcolare il tempo di ritorno della radiotossicità ai
livelli di miniera, di considerare cioè il tempo necessario affinché la
radiotossicità per ingestione delle scorie pareggi quella dell’uranio naturalmente
presente in miniera. Il concetto è quello di non aumentare il livello della
radiotossicità naturale, o, per lo meno, di controllarlo accuratamente finché
questo non decada. Bisogna sempre considerare infatti che qualunque sostanza
radioattiva, in quanto tale, è soggetta a decadimento, ossia la sua
pericolosità generalmente diminuisce nel tempo, al contrario di quanto accade
con la tossicità chimica di sostanze come l’arsenico, che rimane costante.
Trattasi di un approccio teorico ed indubbiamente molto cautelativo. Con le
ipotesi attuali, tali tempi di ritorno sono per le scorie non trattate dei
reattori esistenti dell’ordine di 250000 anni (da qui le richieste riguardanti
il sito di Yucca Mountain). All’uomo
comune questo lasso di tempo può sembrare assolutamente inaccettabile: ma è
davvero così? Occorre
fare qui alcune considerazioni importanti. Intanto chiediamoci: che numero è
250 000? Grande o piccolo? Tutti sanno che non esistono numeri di per se grandi
o piccoli, bensì essi sono tali rispetto a qualche grandezza di riferimento.
Tale numero è enorme rispetto alla vita di un uomo, ma irrisorio rispetto ai tipici tempi geologici: basti pensare, ad
esempio, che il tanto contestato sito di Scanzano Jonico è vecchio almeno 5
milioni di anni, e non c’è motivo per pensare che esso non rimarrà un deposito
di sale per un uguale lasso di tempo e che quindi le scorie in esso
eventualmente depositate rimarranno ben confinate dal mondo esterno. Allora
riproponiamo ora la domanda: che numero è 250000 rispetto a 5000000? Tutti
risponderebbero: piccolo!!! Inoltre,
anche in presenza di acqua, i prodotti transuranici (in particolare il
plutonio) hanno dimostrato una scarsa motilità dall'esame dei risultati
“sperimentali” delle analisi condotte sul terreno circostante un complesso di
reattori nucleari formatisi per un insieme di cause naturali ad Oklo, nel Gabon
(Africa), circa 2 miliardi di anni fa (fig. 2). Per motivi che saranno
spiegati meglio in un altro articolo un giacimento di uranio ha dato vita nel
corso del tempo a ben 17 reattori nucleari naturali che hanno fissionato circa
5 tonnellate di uranio-235 sviluppando approssimativamente 108 MWh
con un periodo complessivo di funzionamento dell'ordine di 106
anni[4][5]. La composizione delle ‘scorie’ trovate nel sito è molto simile a
quella dei moderni reattori nucleari. Come già detto, si è rilevato che
praticamente tutti i prodotti di fissione sono rimasti nelle immediate
vicinanze dei reattori naturali per quasi due miliardi di anni. Il plutonio
presente (2.5 tonnellate) non si è spostato che di pochissimo (circa 3 metri
secondo i tecnici)[6]. Questo esempio naturale prova, come meglio non sarebbe
possibile fare, la ridotta motilità dei
prodotti delle reazioni nucleari e quindi l’affidabilità della soluzione del deposito
in siti geologicamente stabili. Figura 2 – Resti del reattore fossile numero 15 di Oklo.
Sono visibili i residui di colore giallo di ossido di uranio. I prodotti di
fissione ed il plutonio non sono migrati e sono praticamente rimasti sul
posto[5] Come
già anticipato, nei depositi nucleari oltre alle barriere ‘naturali’, vengono
interposte una serie di significative barriere ingegneristiche (che
costituiscono quindi una ulteriore garanzia di sicurezza). La
prima barriera ingegneristica è costituita dalla matrice in cui vengono
inglobate le scorie. Trattasi di cemento, vetro o SynRock (Synthetic Rock),
frutto di decennali ricerche. Sulle scorie così condizionate, vengono
effettuate verifiche riguardanti il calore di decadimento, l’auto-irraggiamento
e l’eventuale azione chimica dell’acqua (possibile nel lungo periodo). I
modelli via via sviluppati sono divenuti sempre più accurati e precisi: oggi si
pensa ragionevolmente che la sola vetrificazione possa garantire la tenuta per
almeno un milione di anni[7]. Il
danno potenziale originato dall’auto-irraggiamento è dovuto principalmente ai
nuclei di rinculo nel decadimento alfa (ossia l’espulsione di un nucleo di elio
ad alta energia da parte del nucleo radioattivo, che quindi viene violentemente
spinto all’indietro), che depositano grandi quantità di energia (dell’ordine di
0.1 MeV) in piccolissime distanze (dell’ordine di 30 nanometri), generando una
cascata di difetti atomici che nel lungo termine potrebbero compromettere la
struttura della matrice. Tali effetti sono stati studiati in vetri
opportunamente ‘dopati’ con curio-244, ottenendo dosi integrate nel giro di
pochi anni che riproducono l’effetto che i vetri dovrebbero
ricevere nel corso delle centinaia di migliaia di anni (si parla di 4-5
x 1018 particelle α per grammo, con una dose di 4÷5 miliardi di gray). I francesi hanno messo
a punto l’R7T7, di natura simile a quella dei vetri vulcanici, a base di ossidi
di silicio, boro, alluminio, sodio e zirconio, fig. 3. I
risultati di tali prove sono rassicuranti: la variazione percentuale di volume
è trascurabile (0.6%), e la resistenza a corrosione da parte dell’acqua non
viene compromessa significativamente. Inoltre non solo il vetro non risulta
infragilito, ma le sue proprietà meccaniche risultano addirittura migliorate
(si ha una fragilità ridotta ed un incremento della resistenza alla frattura). Figura 3 – Il vetro di classe nucleare R7T7 (sulla
destra) può essere considerato l’analogo del vetro vulcanico (sulla sinistra) Ad
esempio, nella soluzione adottata dagli svedesi (SKB), il combustibile esausto
viene racchiuso in opportuni contenitori di acciaio inossidabile (con spessore
di 50 mm), a loro volta contenuti in cilindri di rame con spessore di 50 mm, fig. 4. Figura
4 – Rappresentazione di un contenitore cilindrico per rifiuti nucleari lungo
circa 5 metri e del diametro di 880 mm. Il contenitore interno di acciaio inossidabile
ha uno spessore di 50 mm, ed è a sua volta contenuto in un cilindro di rame
dello spessore 50 mm . Il peso totale, compreso il combustibile è di circa 15
tonnellate[8]
Figura 5 – Lavorazione del
coperchio di rame[8] Figura
6 – Questo esemplare di rame nativo è stato rinvenuto in Arizona (USA) e si
stima abbia un’età di circa un miliardo di anni. Può servire come analogo
rispetto ai rivestimenti dei contenitori[8] Tale nave, affondata nel giugno 1676 (oltre
trecento anni fa), è rimasta fino ad epoche recenti sui fondali del Mare
Baltico. Il cannone (fig. 7) è stato analizzato, ed è stato
trovato in perfetto stato di conservazione: misure accurate hanno consentito di
stimare che la corrosione del rame nell’argilla è dell’ordine di pochi
millimetri in 100000 anni[8]. Figura 7 – Il cannone ricuperato dalla nave da guerra
svedese Kronan, rimasto per circa trecento anni in fondo al mare[8] Sulla
base delle suddette considerazioni, si può dedurre che le barriere utilizzate
nel contenitore rimarranno integre per un periodo praticamente infinito,
comunque superiore ad un milione di anni. Infine,
nel caso svedese, i contenitori vengono sepolti a 500÷1000 metri di profondità
in una struttura di bentonite situata nel banco basaltico, fig. 8. Tale
materiale, assieme alla roccia, agirebbe da ‘filtro’ in caso di una quanto mai
improbabile fuoriuscita dei radionuclidi. Figura 8 – Barriere multiple
in un deposito geologico. 1: Contenitore di acciaio e
rame. (la stessa natura ceramica del combustibile costituisce una prima
efficace barriera) 2: Blocchi di bentonite. L’argilla protegge ulteriormente
i contenitori dall’acqua (con la quale forma un gel impermeabile) e ne
impedisce il movimento 3: Misto di
bentonite e sabbia che riempie i tunnel 4: Roccia che offre un
ambiente protettivo sia dal punto di vista meccanico che chimico. Agisce
inoltre quale filtro per l’acqua[8]
In
un deposito chiuso di tal tipo non è richiesta ulteriore sorveglianza e/o
manutenzione per garantirne la sicurezza. Comunque la natura e la quantità del
materiale stoccato è opportunamente documentata. Per
rafforzare le affermazioni precedenti, si può constatare che la stessa natura
si è dimostrata una eccellente fonte di conoscenza al fine della progettazione
di un deposito permanente. Per prevedere quello che avverrà fra centinaia di
migliaia di anni possiamo fare riferimento a quello che è successo nel passato.
Possiamo esaminare il comportamento del sito, risalendo a milioni di anni fa,
ottenendo così informazioni di valore insostituibile ai fini della
determinazione delle sue caratteristiche. Gli studiosi parlano, in questo caso,
di “analoghi naturali”. Ad esempio possiamo studiare il comportamento dei
giacimenti naturali di uranio, risalenti a milioni di anni quali, ad esempio,
il già citato caso di Oklo. La natura ha altresì dimostrato come sia possibile
isolare alti livelli di radioattività in un sito senza alcun impatto
ambientale: in Canada, nel deposito di Cigar Lake, si trova una concentrazione
di uranio naturale che arriva al 55% del minerale. Tale miniera si è formata
1300 milioni di anni fa ed è situata a 430 metri di profondità; contiene più di
un milione di metri cubi di uranio. L’argilla ha isolato il deposito. Non ci
sono tracce in superficie (quali radiazioni, sostanze radioattive, calore) che
indichino la presenza della miniera. L’argilla ha dimostrato di poter resistere
a temperature dell’ordine del centinaio di gradi centigradi per milioni di anni
(come dimostrato nel sito di Hamra, sull’isola di Gotland, nel corso di
trivellazioni petrolifere[8]). Ha inoltre l’eccellente capacità di conservare
nel tempo gli oggetti che ricopre, fig. 9. Figura 9 – Pezzo di legno proveniente da una foresta
vecchia 1.5 milioni di anni. Il ritrovamento è avvenuto a Dunarobba (Italia,
Umbria) dove sono stati ritrovati circa una ventina di alberi sepolti
nell’argilla: il deterioramento del legno è stato visibilmente prevenuto dalle
sue eccellenti proprietà protettive[8] Accenniamo
infine che la tecnologia presentata rappresenta soltanto una delle tante a disposizione. Negli
USA ad esempio i contenitori, oltre ad inglobare le scorie già sotto forma di vetri al borosilicato (ampiamente collaudati), sono
costituiti da un rivestimento esterno di Hastelloy C22, lega molto resistente
alla corrosione (si stima un valore del danneggiamento per questa via di circa
0.8 mm in 10000 anni!), e da uno interno di titanio (Grade 7), anch’esso molto
resistente alla corrosione (stimata in circa 2 mm dei 15 a disposizione in
10000 anni). Secondo le proiezioni al massimo l’1% dei contenitori potrebbe
perdere la propria integrità entro i primi 80000 anni[6]. Altri
paesi, come Francia, Giappone e Regno Unito adoperano la tecnologia del “riprocessamento del combustibile”: essa consiste nella separazione per via chimica (processo Purex) dell’uranio e del
plutonio (che costituiscono circa il 96% del combustibile esausto) dai prodotti
di fissione, che vengono quindi isolati, vetrificati, e stoccati in siti
geologici con le tecniche già viste. Tale opzione però non costituisce
un’alternativa al deposito geologico, bensì una tecnologia legata al ciclo del
combustibile che lo completa; si ha però l’effetto del
bruciamento del plutonio, molto favorevole sia
da un punto di vista ambientale che energetico. Con tale processo, per ogni
tonnellata di combustibile esaurito, si ricupera, attraverso il bruciamento del
fissile recuperato, un’energia pari a quella
sviluppata da 100000 barili di petrolio. Fino ad oggi nel mondo sono state
riprocessate circa 75000 tonnellate di combustibile nucleare[12]. Conclusioni
Si può concludere che la tecnologia dei depositi permanenti delle scorie nucleari è stata analizzata e messa a punto, nei suoi molteplici aspetti, attraverso ricerche condotte in più parti del mondo che hanno visto la collaborazione attiva di università, istituti tecnologici, di ricerca ed esperti del settore. Sono state effettuate lunghe e complete esperienze ed è stata valutata la solubilità e la migrazione dei radionuclidi: si è visto che, in particolare, il plutonio presente nel combustibile presenta una solubilità molto bassa (i livelli sono talmente bassi che sono difficili da misurare!). Appare chiaro che le attuali tecnologie mettono a disposizione delle valide soluzioni alla questione dello smaltimento sicuro delle scorie nucleari di alto livello. La tematica è sicuramente delicata e merita accurate riflessioni ed approfondimenti (al di la di un certo ”accanimento ecologico” imperante sull’argomento). In particolare, oltre alla necessità della nostra protezione immediata, si pone il problema di non lasciare delle pesanti eredità ‘radioattive’ alle generazioni future, fatto di per se moralmente inaccettabile. Le soluzioni attuali però consentono una custodia sicura per centinaia di migliaia di anni (più realisticamente per milioni di anni), senza alcuna necessità di sorveglianza/controllo. La documentazione esistente potrebbe consentire alle generazioni future di rivedere le nostre decisioni e scegliere una diversa destinazione per le scorie, soprattutto qualora queste fossero ritenute in quel momento ancora utilizzabili e vi fosse la necessità di energia. Riassumendo possiamo dire che: - la soluzione attuale riguardante il deposito in siti geologici delle scorie nucleari appare del tutto affidabile, adeguata e sicura; - attualmente, per minimizzare ulteriormente la consistenza delle scorie, sono in corso di studio in tutto il mondo ricerche di tecnologie adatte a ‘bruciare’ il waste (ossia a riportare la sua radiotossicità ai livelli naturali dell’uranio da cui sono state originate) in poche centinaia di anni, e tali tecnologie saranno commercialmente mature entro pochi anni; - al contrario dei rifiuti pericolosi convenzionali, quali il mercurio o l’arsenico, che sono ‘stabili’, quelli radioattivi sono soggetti a decadimento: questo implica che la loro pericolosità decresca continuamente nel tempo. Alla luce di queste considerazioni, si può concludere che le scorie radioattive non costituiscono un reale problema ai fini della produzione di energia per via nucleare. Si può inoltre osservare che sono oggi in fase avanzata di studio impianti nucleari di IV generazione sicuri e con caratteristiche particolarmente favorevoli riguardo ai costi di realizzazione ed alla produzione di scorie. Ad esempio sono in corso una serie di studi anche nel quadro di attività di ricerca comunitarie[10][11] sui reattori a gas ad alta temperatura (i reattori del futuro), in grado di utilizzare le scorie per produrre energia, riducendone drasticamente nel tempo la pericolosità. Possiamo pertanto ritenere che l’utilizzo pacifico dell’energia nucleare rappresenta una valida quanto necessaria alternativa alle fonti tradizionali (in particolare quelle fossili). L’aumento dei consumi energetici su scala mondiale ed il conseguente rapido esaurirsi delle scorte con le conseguenti tematiche riguardanti gli equilibri geopolitici, nonché i reali problemi ambientali, ci pongono oggi di fronte a delle scelte delicate ed urgenti che richiedono, particolarmente per l'Italia , un riesame di affrettate ed immotivate decisioni che si sono già dimostrate gravide di negative conseguenze. Molto del nostro futuro e di quello dei nostri
discendenti dipenderà dall’equilibrio, dalla saggezza e dalla lungimiranza
delle nostre decisioni attuali. Bibliografia
[1] – Uranium Information Centre Ltd. – http://www.uic.com [2]
– “Analisi di alcune peculiari potenzialità degli HTR: la produzione di
idrogeno ed il bruciamento degli attinidi” - V. Romanello - Tesi di laurea in
Ingegneria Nucleare, relatori prof. N. Cerullo, prof. G. Forasassi, prof. B.
Montagnini, ing. G. Lomonaco, Università di Pisa - Ottobre 2003 http://etd.adm.unipi.it/theses/available/etd-10152003-181233/ [3] – “Yucca Mountain – Looking ten thousand years into the future” –
Los Alamos Science, number 26, 2000 – Roger C. Eckhardt [4] – “Introductory Nuclear Physics” – Kenneth S. Krane – Wiley &
Sons [5] – NASA – http://antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/ap021016.html [6] – OCRWM (Office of Civilian Radioactive Waste Management) – http://www.ocrwm.doe.gov [7] – “Glass packages guaranteed for millions of years” – CEA Clefs n.
46 [8] – “Activities 1994 – The Swedish system for radioactive waste” – SKB
(Swedish Nuclear Fuel and Waste Management Company) – http://www.skb.se [9] – “Scienza ed emergenze
planetarie” – Antonino Zichichi – BUR [10] – “The Capabilities of HTRs to Burn Actinides
and to Optimize Plutonium Exploitation” – N. Cerullo, D. Bufalino, G. Forasassi,
G. Lomonaco, P. Rocchi, V. Romanello – Proceedings
of ICONE12, 12th
International Conference on Nuclear Engineering, 25-29 April 2004, Arlington,
Virginia, USA
[11]
– “An additional performance of HTRs:
the waste radiotoxicity minimization” – Proceedings
of ICRS10, 9-14 May
2004,
|