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La tematica delle scorie nucleari

di V. Romanello, G. Lomonaco e N. Cerullo

 

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L’energia nucleare, con una percentuale di produzione elettrica nel mondo pari al 17% (24% nei paesi OECD, 35% nell’Unione Europea) riduce annualmente l’immissione di 2.4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica[1] nell’atmosfera (la cui concentrazione è aumentata sensibilmente nell’ultimo secolo[2]), costituendo altresì una forma di energia abbondante, poco soggetta alle fluttuazioni dei mercati, e rispettosa dell’ambiente.

Prodotto della fissione del combustibile nucleare sono le cosiddette scorie nucleari. Con tale termine si intende indicare principalmente il combustibile che giunto alla fine del proprio ciclo di vita deve essere smaltito, ma anche una serie di materiali divenuti radioattivi nel corso del funzionamento del reattore nucleare; infine il reattore stesso, giunto a fine vita dovrà essere smantellato. Bisogna tuttavia notare che i cosiddetti ‘materiali attivati’, ossia quelli che originariamente non erano radioattivi ma lo sono divenuti nel corso dell’esercizio dell’impianto per l’effetto dei neutroni (come ad esempio l’acciaio che costituisce il recipiente del vessel – contenitore in pressione del combustibile nucleare), pongono minori problemi a causa della loro (relativamente) bassa radioattività e rapidità di decadimento.

L’argomento delle scorie nucleari costituisce il cavallo di battaglia di un gruppo di “ambientalisti” nel corso di una decisa “guerra” all’impiego pacifico dell’energia nucleare. In realtà quello delle scorie radioattive costituisce un falso problema, in quanto esse sia per la loro limitata quantità che per le precauzioni delle quali il loro trattamento e la loro conservazione sono fatti oggetto, praticamente annulla la loro potenziale pericolosità.

Comunque qualsiasi attività umana richiede un prezzo e quelli che accettiamo, anche per molte attività “normali” (compresa la produzione di energia per via convenzionale), sono di gran lunga più elevati di quelli dovuti alla produzione di energia per via nucleare.

Scopo di questo articolo, pertanto,  è anche quello di evidenziare quanto si fa in questo campo e la limitata (seppur presente) pericolosità delle scorie nucleari.

Bisogna tenere innanzitutto presente che i rifiuti nucleari vengono suddivisi in tre grandi categorie:

-   basso livello: sono i più abbondanti e scarsamente pericolosi a lungo termine (ad esempio il materiale sanitario usato nella medicina nucleare, gli indumenti usa e getta forniti in una visita ad un impianto nucleare, etc.) che costituiscono il 90% delle scorie prodotte ma contengono solo l’1% della radioattività di origine antropogenica;

-   medio livello: sono costituiti, ad esempio, dalle guaine di lega di zirconio degli elementi combustibili del reattore; richiedono una schermatura, ma costituiscono solo il 7% delle scorie (e contengono il 4% della radioattività);

-   alto livello: costituiscono il 3% delle scorie ma contengono il 95% della radioattività e sono i più pericolosi a lungo termine.

L’ultima categoria è sicuramente quella che pone i maggiori rischi, dati i periodi di dimezzamento[1] molto lunghi e la complessa catena di decadimenti necessaria per raggiungere la stabilità nucleare.

I 436 reattori nucleari presenti in 31 nazioni producono annualmente migliaia di tonnellate di scorie.

Un reattore ad acqua pressurizzata da 1000 MWe scarica annualmente da 40 a 70 elementi combustibili contenenti 461.4 kg di uranio ciascuno; tuttavia il 94% del combustibile esausto è costituito da uranio-238, l’1% da uranio-235 (elementi già presenti in natura e quindi considerati non pericolosi), il 3-4 % da prodotti di fissione (quali cesio, stronzio, iodio, tecnezio, ecc.), pericolosi se liberati in caso di incidente, ma innocui dopo qualche centinaio di anni se custoditi in un deposito geologico. Gli elementi di maggiore rischio perché molto più pericolosi dell’uranio naturale presente in natura sono costituiti per l’1% da i vari isotopi del plutonio e per lo 0.1 % dagli attinidi minori (nettunio, americio e curio; così chiamati perché prodotti in minore quantità nei reattori nucleari tradizionali).

Da  una semplice analisi si rileva che un PWR (reattore ad acqua pressurizzata) di grossa taglia, annualmente scarica circa 2÷3 kg di plutonio, 0.2÷0.3 kg di attinidi minori. Per avere un termine di paragone con le fonti tradizionali, si può rilevare che il volume di rifiuti prodotto da queste ultime per produrre la stessa quantità di energia è milioni di volte maggiore. Per meglio visualizzare questo dato basti pensare che è stato calcolato che se un uomo per soddisfare i propri bisogni energetici durante tutta la sua vita usasse la sola energia nucleare[2] produrrebbe un volume di scorie (già vetrificate) minore di quello di una lattina da 33 cl. (fig. 1)!

 

Scorie 

Figura 1 – Volume di scorie vetrificate prodotte nel corso della vita di un uomo che utilizzi la sola energia nucleare per soddisfare i propri bisogni

Quando si affronta dunque la tematica dell’energia nucleare, ed in particolare quella delle scorie, bisogna tenere presenti questi numeri, ma anche considerare in che modo tali scorie, per quanto ridotte in termini di massa (volume) possano costituire un pericolo potenziale attuale o futuro.

L’approccio attualmente seguito per effettuare tale valutazione (in verità fortemente conservativa) è quello di considerare il lasso di tempo necessario affinché, decadendo, tali prodotti raggiungano la radiotossicità· (che è una misura della pericolosità potenziale) dell’uranio originariamente presente in miniera.

La radioattività è un fenomeno fisico complesso, caratterizzato da diverse grandezze; quello che interessa però ai fini della salute umana è il cosiddetto equivalente di dose, ossia l’energia specifica depositata nel tessuto umano corretta da opportuni fattori di qualità. In particolare bisogna considerare la natura delle radiazioni, la loro energia, il meccanismo con cui un radionuclide può essere assorbito e poi eliminato dal corpo, ecc.

Quando si affronta la tematica delle scorie nucleari ci si riferisce, di norma, alla radiotossicità per ingestione, poiché si ipotizza (anche qui forse con eccessiva prudenza) che  dopo un certo lasso di tempo, per quanto lungo, tali prodotti vengano disciolti dall’acqua e trasportati attraverso le falde acquifere, costituendo queste quindi una via di ritorno per l’uomo.

A tal proposito, è fondamentale tenere presente che secondo l’attuale filosofia di smaltimento le scorie nucleari vengono depositate in appositi siti (i cosiddetti depositi geologici) dotati di particolari caratteristiche, durevoli nel tempo. Inoltre le scorie, dopo essere state vetrificate (o comunque inglobate in una opportuna matrice inerte), vengono inserite in appositi contenitori protettivi di elevata sicurezza (resistenti anche alla corrosione a lunghissimo termine). Il fine di tali barriere naturali ed ingegneristiche predisposte è quello di ridurre a valori di fatto nulli l’equivalente di dose che le popolazioni che abiteranno in prossimità di tali depositi geologici potrebbero ricevere in un futuro remoto.

Gli USA hanno previsto per il deposito delle scorie nucleari delle centrali il sito di Yucca Mountain, situato nel deserto del Nevada, a circa 100 miglia da Las Vegas. Esso è stato sottoposto innanzitutto dal DOE (Department Of Energy) ad una approfondita analisi geologica con una spesa di 6 miliardi di dollari[3]. Inoltre l’EPA (Environmental Protection Agency), cioè l’ente di controllo ambientale,  ha richiesto che fra 10000 anni l’equivalente di dose ricevuto dagli abitanti in seguito ad un eventuale rilascio dei radionuclidi, sia non superiore a 20 mrem/anno. Per valutare l’esosità della richiesta, si noti che  l’equivalente di dose medio naturale (che assorbiamo senza danni da centinaia di migliaia di anni) è pari in Italia a circa 300 mrem/anno. Come se ciò non bastasse, recentemente tale lasso di tempo è stato oggetto di critiche, poiché ritenuto insufficiente e si è richiesto addirittura una aumento di tale periodo fino a 100000 anni. Tale richiesta si commenta da se: è come pretendere da un ingegnere che realizzi una casa che non solo regga al carico statico, ad un terremoto di forte intensità o addirittura all’uragano "Ivan il terribile", ma che anche, in caso di un imprevedibile crollo rovinoso ed improvviso dell’edificio, nessuno degli occupanti  si faccia alcun male!

In questo quadro, uno degli approcci più seguiti oggi è quello di calcolare il tempo di ritorno della radiotossicità ai livelli di miniera, di considerare cioè il tempo necessario affinché la radiotossicità per ingestione delle scorie pareggi quella dell’uranio naturalmente presente in miniera. Il concetto è quello di non aumentare il livello della radiotossicità naturale, o, per lo meno, di controllarlo accuratamente finché questo non decada. Bisogna sempre considerare infatti che qualunque sostanza radioattiva, in quanto tale, è soggetta a decadimento, ossia la sua pericolosità generalmente diminuisce nel tempo, al contrario di quanto accade con la tossicità chimica di sostanze come l’arsenico, che rimane costante. Trattasi di un approccio teorico ed indubbiamente molto cautelativo. Con le ipotesi attuali, tali tempi di ritorno sono per le scorie non trattate dei reattori esistenti dell’ordine di 250000 anni (da qui le richieste riguardanti il sito di Yucca Mountain).

All’uomo comune questo lasso di tempo può sembrare assolutamente inaccettabile: ma è davvero così?

Occorre fare qui alcune considerazioni importanti. Intanto chiediamoci: che numero è 250 000? Grande o piccolo? Tutti sanno che non esistono numeri di per se grandi o piccoli, bensì essi sono tali rispetto a qualche grandezza di riferimento. Tale numero è enorme rispetto alla vita di un uomo, ma irrisorio rispetto ai tipici tempi geologici: basti pensare, ad esempio, che il tanto contestato sito di Scanzano Jonico è vecchio almeno 5 milioni di anni, e non c’è motivo per pensare che esso non rimarrà un deposito di sale per un uguale lasso di tempo e che quindi le scorie in esso eventualmente depositate rimarranno ben confinate dal mondo esterno. Allora riproponiamo ora la domanda: che numero è 250000 rispetto a 5000000? Tutti risponderebbero: piccolo!!!

Inoltre, anche in presenza di acqua, i prodotti transuranici (in particolare il plutonio) hanno dimostrato una scarsa motilità dall'esame dei risultati “sperimentali” delle analisi condotte sul terreno circostante un complesso di reattori nucleari formatisi per un insieme di cause naturali ad Oklo, nel Gabon (Africa), circa 2 miliardi  di anni fa (fig. 2).

Per motivi che saranno spiegati meglio in un altro articolo un giacimento di uranio ha dato vita nel corso del tempo a ben 17 reattori nucleari naturali che hanno fissionato circa 5 tonnellate di uranio-235 sviluppando approssimativamente 108 MWh con un periodo complessivo di funzionamento dell'ordine di 106 anni[4][5]. La composizione delle ‘scorie’ trovate nel sito è molto simile a quella dei moderni reattori nucleari. Come già detto, si è rilevato che praticamente tutti i prodotti di fissione sono rimasti nelle immediate vicinanze dei reattori naturali per quasi due miliardi di anni. Il plutonio presente (2.5 tonnellate) non si è spostato che di pochissimo (circa 3 metri secondo i tecnici)[6]. Questo esempio naturale prova, come meglio non sarebbe possibile fare,  la ridotta motilità dei prodotti delle reazioni nucleari e quindi l’affidabilità della soluzione del deposito in siti geologicamente stabili.

 

 Resti_Oklo

Figura 2 – Resti del reattore fossile numero 15 di Oklo. Sono visibili i residui di colore giallo di ossido di uranio. I prodotti di fissione ed il plutonio non sono migrati e sono praticamente rimasti sul posto[5]

 Alla luce di quanto detto, la più importante garanzia nello smaltimento dei rifiuti nucleari è quindi rappresentata proprio dalla natura dei siti prescelti: trattasi di miniere di salgemma vecchie milioni di anni (non vi è mai stata acqua che avrebbe sciolto il sale), banchi basaltici o depositi in zone desertiche, situati al di sopra delle falde acquifere. Le scorie vengono in tali casi depositate a 500÷1000 metri di profondità e pertanto nessun danno da irraggiamento diretto è possibile.

Come già anticipato, nei depositi nucleari oltre alle barriere ‘naturali’, vengono interposte una serie di significative barriere ingegneristiche (che costituiscono quindi una ulteriore garanzia di sicurezza).

La prima barriera ingegneristica è costituita dalla matrice in cui vengono inglobate le scorie. Trattasi di cemento, vetro o SynRock (Synthetic Rock), frutto di decennali ricerche. Sulle scorie così condizionate, vengono effettuate verifiche riguardanti il calore di decadimento, l’auto-irraggiamento e l’eventuale azione chimica dell’acqua (possibile nel lungo periodo). I modelli via via sviluppati sono divenuti sempre più accurati e precisi: oggi si pensa ragionevolmente che la sola vetrificazione possa garantire la tenuta per almeno un milione di anni[7].

Il danno potenziale originato dall’auto-irraggiamento è dovuto principalmente ai nuclei di rinculo nel decadimento alfa (ossia l’espulsione di un nucleo di elio ad alta energia da parte del nucleo radioattivo, che quindi viene violentemente spinto all’indietro), che depositano grandi quantità di energia (dell’ordine di 0.1 MeV) in piccolissime distanze (dell’ordine di 30 nanometri), generando una cascata di difetti atomici che nel lungo termine potrebbero compromettere la struttura della matrice. Tali effetti sono stati studiati in vetri opportunamente ‘dopati’ con curio-244, ottenendo dosi integrate nel giro di pochi anni che riproducono l’effetto che i vetri  dovrebbero  ricevere nel corso delle centinaia di migliaia di anni (si parla di 4-5 x 1018 particelle α per grammo, con una dose di  4÷5 miliardi di gray). I francesi hanno messo a punto l’R7T7, di natura simile a quella dei vetri vulcanici, a base di ossidi di silicio, boro, alluminio, sodio e zirconio, fig. 3.

I risultati di tali prove sono rassicuranti: la variazione percentuale di volume è trascurabile (0.6%), e la resistenza a corrosione da parte dell’acqua non viene compromessa significativamente. Inoltre non solo il vetro non risulta infragilito, ma le sue proprietà meccaniche risultano addirittura migliorate (si ha una fragilità ridotta ed un incremento della resistenza alla frattura).

 

 R7T7

Figura 3 – Il vetro di classe nucleare R7T7 (sulla destra) può essere considerato l’analogo del vetro vulcanico (sulla sinistra)

 Tali vetri presentano la favorevole caratteristica di ripristinare la loro struttura dopo il passaggio del nucleo di rinculo. Nonostante si sia dimostrato che la matrice vetrosa costituisca già di per se una efficiente e durevole barriera al rilascio dei radionuclidi, bisogna sottolineare che questa rappresenta solo una parte del sistema di isolamento a barriere multiple adottato.

Ad esempio, nella soluzione adottata dagli svedesi (SKB), il combustibile esausto viene racchiuso in opportuni contenitori di acciaio inossidabile (con spessore di 50 mm), a loro volta contenuti in cilindri di rame  con spessore di 50 mm, fig. 4.

 Cask

Figura 4 – Rappresentazione di un contenitore cilindrico per rifiuti nucleari lungo circa 5 metri e del diametro di 880 mm. Il contenitore interno di acciaio inossidabile ha uno spessore di 50 mm, ed è a sua volta contenuto in un cilindro di rame dello spessore 50 mm . Il peso totale, compreso il combustibile è di circa 15 tonnellate[8]

 
Tali contenitori vengono fabbricati con le più moderne e sofisticate tecnologie ed il ‘tappo’ (fig. 5) viene saldato elettronicamente[8].

 Coperchio

Figura 5 – Lavorazione del coperchio di rame[8]

 L’adozione del rame quale involucro esterno rappresenta una garanzia notevole rispetto a possibili, anche se altamente improbabili, infiltrazioni di acqua. Il rame nativo è risultato essere stabile fino ad oltre 500 milioni di anni (fig. 6), e gli archeologi hanno trovato oggetti di rame risalenti ad oltre 8000 anni fa, ancora in buone condizioni. Questo metallo è duttile, anche a basse temperature e quindi conserva le sue caratteristiche meccaniche anche nel caso di una eventuale glaciazione. Per tali applicazioni si utilizza puro, privo di ossigeno. La stessa acqua presente in profondità è priva di ossigeno disciolto, quindi una sua eventuale presenza, causerebbe una corrosione molto ridotta.

 

Rame_nativo 

Figura 6 – Questo esemplare di rame nativo è stato rinvenuto in Arizona (USA) e si stima abbia un’età di circa un miliardo di anni. Può servire come analogo rispetto ai rivestimenti dei contenitori[8]

 Le ipotesi di resistenza del rame sono suffragate dal ritrovamento di un cannone della nave da guerra svedese Kronan, affondata nel XVII secolo.

Tale nave, affondata nel giugno 1676 (oltre trecento anni fa), è rimasta fino ad epoche recenti sui fondali del Mare Baltico.

Il cannone (fig. 7) è stato analizzato, ed è stato trovato in perfetto stato di conservazione: misure accurate hanno consentito di stimare che la corrosione del rame nell’argilla è dell’ordine di pochi millimetri in 100000 anni[8].

 

 Cannone

Figura 7 – Il cannone ricuperato dalla nave da guerra svedese Kronan, rimasto per circa trecento anni in fondo al mare[8]

 Per quanto riguarda il contenitore interno di acciaio, esso, oltre a costituire una barriera aggiuntiva, serve a sopportare le sollecitazioni meccaniche.

Sulla base delle suddette considerazioni, si può dedurre che le barriere utilizzate nel contenitore rimarranno integre per un periodo praticamente infinito, comunque superiore ad un milione di anni.

Infine, nel caso svedese, i contenitori vengono sepolti a 500÷1000 metri di profondità in una struttura di bentonite situata nel banco basaltico, fig. 8. Tale materiale, assieme alla roccia, agirebbe da ‘filtro’ in caso di una quanto mai improbabile fuoriuscita dei radionuclidi.

 

Barriere 

Figura 8 – Barriere multiple in un deposito geologico. 1: Contenitore di acciaio e rame. (la stessa natura ceramica del combustibile costituisce una prima efficace barriera) 2: Blocchi di bentonite. L’argilla protegge ulteriormente i contenitori dall’acqua (con la quale forma un gel impermeabile) e ne impedisce il movimento 3: Misto di bentonite e sabbia che riempie i tunnel 4: Roccia che offre un ambiente protettivo sia dal punto di vista meccanico che chimico. Agisce inoltre quale filtro per l’acqua[8]

 

In un deposito chiuso di tal tipo non è richiesta ulteriore sorveglianza e/o manutenzione per garantirne la sicurezza. Comunque la natura e la quantità del materiale stoccato è opportunamente documentata.

Per rafforzare le affermazioni precedenti, si può constatare che la stessa natura si è dimostrata una eccellente fonte di conoscenza al fine della progettazione di un deposito permanente. Per prevedere quello che avverrà fra centinaia di migliaia di anni possiamo fare riferimento a quello che è successo nel passato. Possiamo esaminare il comportamento del sito, risalendo a milioni di anni fa, ottenendo così informazioni di valore insostituibile ai fini della determinazione delle sue caratteristiche. Gli studiosi parlano, in questo caso, di “analoghi naturali”. Ad esempio possiamo studiare il comportamento dei giacimenti naturali di uranio, risalenti a milioni di anni quali, ad esempio, il già citato caso di Oklo. La natura ha altresì dimostrato come sia possibile isolare alti livelli di radioattività in un sito senza alcun impatto ambientale: in Canada, nel deposito di Cigar Lake, si trova una concentrazione di uranio naturale che arriva al 55% del minerale. Tale miniera si è formata 1300 milioni di anni fa ed è situata a 430 metri di profondità; contiene più di un milione di metri cubi di uranio. L’argilla ha isolato il deposito. Non ci sono tracce in superficie (quali radiazioni, sostanze radioattive, calore) che indichino la presenza della miniera. L’argilla ha dimostrato di poter resistere a temperature dell’ordine del centinaio di gradi centigradi per milioni di anni (come dimostrato nel sito di Hamra, sull’isola di Gotland, nel corso di trivellazioni petrolifere[8]). Ha inoltre l’eccellente capacità di conservare nel tempo gli oggetti che ricopre, fig. 9.

 

Legno 

Figura 9 – Pezzo di legno proveniente da una foresta vecchia 1.5 milioni di anni. Il ritrovamento è avvenuto a Dunarobba (Italia, Umbria) dove sono stati ritrovati circa una ventina di alberi sepolti nell’argilla: il deterioramento del legno è stato visibilmente prevenuto dalle sue eccellenti proprietà protettive[8]

 

Accenniamo infine che la tecnologia presentata rappresenta soltanto una delle tante a disposizione.

Negli USA ad esempio i contenitori, oltre ad inglobare le scorie già sotto forma di vetri al borosilicato (ampiamente collaudati), sono costituiti da un rivestimento esterno di Hastelloy C22, lega molto resistente alla corrosione (si stima un valore del danneggiamento per questa via di circa 0.8 mm in 10000 anni!), e da uno interno di titanio (Grade 7), anch’esso molto resistente alla corrosione (stimata in circa 2 mm dei 15 a disposizione in 10000 anni). Secondo le proiezioni al massimo l’1% dei contenitori potrebbe perdere la propria integrità entro i primi 80000 anni[6].

Altri paesi, come Francia, Giappone e Regno Unito adoperano la tecnologia del “riprocessamento del combustibile”: essa consiste nella separazione per via chimica (processo Purex) dell’uranio e del plutonio (che costituiscono circa il 96% del combustibile esausto) dai prodotti di fissione, che vengono quindi isolati, vetrificati, e stoccati in siti geologici con le tecniche già viste. Tale opzione però non costituisce un’alternativa al deposito geologico, bensì una tecnologia legata al ciclo del combustibile che lo completa; si ha però l’effetto del bruciamento del plutonio, molto favorevole sia da un punto di vista ambientale che energetico. Con tale processo, per ogni tonnellata di combustibile esaurito, si ricupera, attraverso il bruciamento del fissile recuperato, un’energia pari a quella sviluppata da 100000 barili di petrolio. Fino ad oggi nel mondo sono state riprocessate circa 75000 tonnellate di combustibile nucleare[12].

 

Conclusioni

Si può concludere che la tecnologia dei depositi permanenti delle scorie nucleari è stata analizzata e messa a punto, nei suoi molteplici aspetti, attraverso ricerche condotte in più parti del mondo che hanno visto la collaborazione attiva di università, istituti tecnologici, di ricerca ed esperti del settore.

Sono state effettuate lunghe e complete esperienze ed è stata valutata la solubilità e la migrazione dei radionuclidi: si è visto che, in particolare, il plutonio presente nel combustibile presenta una solubilità molto bassa (i livelli sono talmente bassi che sono difficili da misurare!).

Appare chiaro che le attuali tecnologie mettono a disposizione delle valide soluzioni alla questione dello smaltimento sicuro delle scorie nucleari di alto livello. La tematica è sicuramente delicata e merita accurate riflessioni ed approfondimenti (al di la di un certo ”accanimento ecologico” imperante sull’argomento). In particolare, oltre alla necessità della nostra protezione immediata, si pone il problema di non lasciare delle pesanti eredità ‘radioattive’ alle generazioni future, fatto di per se moralmente inaccettabile. Le soluzioni attuali però consentono una custodia sicura per centinaia di migliaia di anni (più realisticamente per milioni di anni), senza alcuna necessità di sorveglianza/controllo. La documentazione esistente potrebbe consentire alle generazioni future di rivedere le nostre decisioni e scegliere una diversa destinazione per le scorie, soprattutto qualora queste fossero ritenute in quel momento ancora utilizzabili e vi fosse la necessità di energia.

Riassumendo possiamo dire che:

-   la soluzione attuale riguardante il deposito in siti geologici delle scorie nucleari appare del tutto affidabile, adeguata e sicura;

-   attualmente, per minimizzare ulteriormente la consistenza delle scorie, sono in corso di studio  in tutto il mondo ricerche di tecnologie adatte a ‘bruciare’ il waste (ossia a riportare la sua radiotossicità ai livelli naturali dell’uranio da cui sono state originate) in poche centinaia di anni, e tali tecnologie saranno commercialmente mature entro pochi anni;

-   al contrario dei rifiuti pericolosi convenzionali, quali il mercurio o l’arsenico, che sono ‘stabili’, quelli radioattivi sono soggetti a decadimento: questo implica che la loro pericolosità decresca continuamente nel tempo.

Alla luce di queste considerazioni, si può concludere che le scorie radioattive non costituiscono un reale problema ai fini della produzione di energia per via nucleare.

Si può inoltre osservare che sono oggi in fase avanzata di studio impianti nucleari di IV generazione sicuri e con caratteristiche particolarmente favorevoli riguardo ai costi di realizzazione ed alla produzione di scorie.

Ad esempio sono in corso una serie di studi anche nel quadro di attività di ricerca comunitarie[10][11] sui reattori a gas ad alta temperatura (i reattori del futuro), in grado di utilizzare le scorie per produrre energia, riducendone drasticamente nel tempo la pericolosità.

Possiamo pertanto ritenere che l’utilizzo pacifico dell’energia nucleare  rappresenta una valida quanto necessaria alternativa alle fonti tradizionali (in particolare quelle fossili).

L’aumento dei consumi energetici su scala mondiale ed il conseguente rapido esaurirsi delle scorte con le conseguenti tematiche riguardanti gli equilibri geopolitici, nonché i reali problemi ambientali, ci pongono oggi di fronte a delle scelte delicate ed urgenti che richiedono, particolarmente per l'Italia , un riesame di affrettate ed immotivate decisioni che si sono già dimostrate gravide di negative conseguenze.

Molto del nostro futuro e di quello dei nostri discendenti dipenderà dall’equilibrio, dalla saggezza e dalla lungimiranza delle nostre decisioni attuali.

 

Bibliografia

 

[1] – Uranium Information Centre Ltd. – http://www.uic.com

[2] – “Analisi di alcune peculiari potenzialità degli HTR: la produzione di idrogeno ed il bruciamento degli attinidi” - V. Romanello - Tesi di laurea in Ingegneria Nucleare, relatori prof. N. Cerullo, prof. G. Forasassi, prof. B. Montagnini, ing. G. Lomonaco, Università di Pisa - Ottobre 2003

http://etd.adm.unipi.it/theses/available/etd-10152003-181233/

[3] – “Yucca Mountain – Looking ten thousand years into the future” – Los Alamos Science, number 26, 2000 – Roger C. Eckhardt

[4] – “Introductory Nuclear Physics” – Kenneth S. Krane – Wiley & Sons

[5] NASA http://antwrp.gsfc.nasa.gov/apod/ap021016.html

[6] – OCRWM (Office of Civilian Radioactive Waste Management) – http://www.ocrwm.doe.gov

[7] – “Glass packages guaranteed for millions of years” – CEA Clefs n. 46

[8] – “Activities 1994 – The Swedish system for radioactive waste” – SKB (Swedish Nuclear Fuel and Waste Management Company) – http://www.skb.se

[9] – “Scienza ed emergenze planetarie” – Antonino Zichichi – BUR

[10]  – “The Capabilities of HTRs to Burn Actinides and to Optimize Plutonium Exploitation” – N. Cerullo, D. Bufalino, G. Forasassi, G. Lomonaco, P. Rocchi, V. Romanello – Proceedings of ICONE12, 12th International Conference on Nuclear Engineering, 25-29 April 2004, Arlington, Virginia, USA

[11] –  “An additional performance of HTRs: the waste radiotoxicity minimization” – Proceedings of ICRS10, 9-14 May 2004, Madeira, Portugal, to be also published on Radiation Protection Dosimetry

[12] “Nuclear Energy Institute” – NEI – http://www.nei.org



[1] Come è noto ogni elemento radioattivo decade nel corso del tempo (ossia si trasmuta in un altro nuclide). Un parametro fisico che viene definito per la descrizione fisica del fenomeno è il periodo di dimezzamento, ossia l’intervallo di tempo necessario affinché la metà dei nuclei radioattivi presenti ad un dato istante subisca decadimento radioattivo e quindi si trasmuti.

· La radiotossicità è definita come la potenzialità di indurre effetti dannosi (per irraggiamento interno) da parte di un radionuclide. Tale termine può riferirsi sia all’inalazione che all’ingestione.